Aspromonte orientale: dove le capre sono dee…

Pietra di Febo e Pietra Castello. San Luca, Aspromonte orientale-  Nome sinistro, per le cronache. Eppure, per me soave. Palestra di camminate in luoghi favolosi. Che portano nomi usciti da fiabe: Pietra di Febo, Pietra Castello, due complessi litici, dalle forme pittoresche, che emergono dalla macchia come antiche fortezze dirute. La nostra meta odierna. Conosciamo bene la zona. Ma questi sono luoghi dell’anima. Quando li penetra una volta, l’anima ne è rapita, vi resta indissolubilmente legata. E, di tanto in tanto, ne avverte il richiamo. E’ quanto ci è accaduto oggi. Abbiamo desiderato tornare qui. Per una ragione insondabile.

Pietra Castello. Ph F. Bevilacqua

La luce è quella pura e fulgida del Sud. Sullo Jonio, poi, nei freddi mattini d’inverno, il sole che sorge, irradia sulla terra i suo strali dorati come una lampada tenue e soffusa. Due anziani pastori. Paiono usciti dai cortometraggi di Cesare De Seta. L’accetta sul braccio. Sotto la camicia si intravede la maglia di orbace. Rassicuriamo sulle nostre intenzioni, presentandoci con nome, cognome e provenienza. Spiegando dove intendiamo andare. Sorridono malinconicamente. Per loro la montagna è fatica, non divertimento. Ma ci danno volentieri consigli sulla strada da seguire, sui sentieri da prendere. Abbiamo amici comuni a San Luca. Percepisco il loro stupore perché qualcuno si interessi alle loro vite dimenticate, ai luoghi solitari in cui essi trascorrono lunghe giornate. Avverto un senso d’orgoglio per il fatto che siamo venuti da lontano, a passeggiare sulle loro terre.
Ci incamminiamo come in un sogno. Il quadro del declivio erboso racchiude vecchie querce dalle fronde che disegnano ricami contro le pianure lontane, velate d’una foschia rilucente. Sul costone che divide le due valli, un giovane pastore attende, incuriosito da questi strani personaggi che solcano il suo territorio. Chiacchieriamo. E’ subito amicizia. Alberto, questo il suo nome, si unisce volentieri a noi. E noi siamo onorati di avere con noi un “custode dei luoghi”. Procediamo su terreni erosi dalla forza dilavante della pioggia ma puntellati da rigogliosi farnetti. Tonde pietre di granito giacciono appollaiate, come uova di dinosauri, su piramidi di terra.

Il becco d’aquila e Pietra Castello a sinistra. Ph F. Bevilacqua

Usciamo in vista della vallata della fiumara Buonamico, famosa perché nel suo cuore più riposto e segreto, giace, come un gatto acciambellato, il santuario della Madonna di Polsi, la Madonna della Montagna delle genti d’Aspromonte. I racconti dei pellegrinaggi a Polsi vivono attraverso le pagine di Alvaro, Perri, Seminara. La fiumara era una delle vie predilette dai pellegrini di San Luca. Sulla nostra destra si erge la prima delle due grandi rupi, Pietra di Febo, che porta ancora il nome greco di Apollo, dio del sole, della bellezza e della poesia, dispensatore di morte ma anche di vita. Ci arrampichiamo lungo lo stretto canalino che sale verso la sommità della rupe. Appena in cresta, furioso c’investe il vento da nord-est. E’ un vento pazzo, che sferza a folate micidiali. Ci strappa quasi da terra. Ci avvolgiamo nelle nostre giacche pesanti. Gli arbusti frusciano e sbattono senza tregua. Sul lato opposto del crinale, appare in tutta la sua grandiosa bellezza la “valle delle grandi pietre” come la battezzò, non appena la vide, l’alpinista Teresio Valsesia, che da queste parti venne con la comitiva del Sentiero Italia, il lungo percorso che unisce tutte le montagne italiane. Ecco infatti, a nord, l’inconfondibile testone semisepolto di Pietra Cappa, il cono festonato di lecci di Pietra Lunga, le mille altre rocce che le circondano e le avvolgono.

La valle delle grandi pietre, tra San Luca e Careri. F. Bevilacqua

Siamo nella vera montagna di San Luca. Quella stessa che è protagonista delle pagine struggenti di “Gente in Apromonte” di Corrado Alvaro, che proprio a San Luca nacque e visse da giovane. Dico ad Alberto che nel primo racconto, quello che dà il titolo al libro, un ragazzo trascina in paese un “aquilotto appena piumato”. Ho sempre pensato che quel ricordo d’infanzia di Alvaro riveli la vocazione delle grandi rupi dove ci troviamo noi ora ad allevare aquile e falchi. L’aquilotto non poteva che provenire da qui, da queste pareti di roccia a picco su valloni scuri ed abrupti. Solo qui, qualche monello, arrampicatore temerario, poteva aver scoperto un nido da saccheggiare. O chissà, l’aquilotto era caduto dal nido.
Sulla destra si erge una rupe dalle forme mostruose che s’affaccia sulla vallata sottostante il paese. In lontananza lo Jonio brilla apparentemente immobile. Perlustriamo, estasiati, quest’angolo di Cappadocia volato in Calabria. Giriamo intorno ai grandi massi rosa trapunti di mica nera che formano un immane cumulo sulla cima della rupe. Vi saliamo sopra resistendo alla furia del vento. Poi ci incamminiamo, sempre in cresta, verso ovest.
Attraversiamo una piattaforma di pietra, dal cui apice spunta un aggetto roccioso che pare un becco d’aquila. Ma quel che ci colpisce sono dei grossi buchi scolpiti nella pietra. Alberto li ha sempre osservati con curiosità, senza chiedersene la ragione, come se si trattasse di un mistero da non rivelare. Noi, invece, congetturiamo che siano abbozzi di cisterne per la raccolta dell’acqua piovana. Tutta questa zona, infatti, pullulava, anticamente di romitaggi di monaci bizantini, che proprio su queste alture impervie e isolate costruivano i loro abituri. Ma vi erano anche fortilizi con funzioni di controllo sulle vallate circostanti. Il percorso è un saliscendi tra un’altura e l’altra, con passaggi ora su un fianco, ora sull’altro.

Una delle rupi di Pietra Castello con un branco di capre. Ph F. Bevilacqua

Dopo l’ennesimo valico, la rupe successiva ci riserva una visione inquietante. Un ripido cono di roccia sfasciata si erge nudo dinanzi a noi, con alle spalle l’azzurro terso del cielo spazzato dal vento. Un branco di capre ci osserva immobile, in bilico sulla parete quasi verticale della rupe. Capre bianche, nere, marroni, dalle barbette impertinenti e dalle fiere corna ricurve. Immobili come camosci abbarbicati alle rocce. Sono quelle – ci spiega Alberto – che sfuggono ai padroni, vivono lontane dalle “mandre”, libere di girovagare nei boschi, capaci di tener testa anche ai lupi. I loro occhi gialli e vitrei ci fissano con fare interrogativo.
La capra è la divinità pagana superstite del Sud. Prendiamo, ad esempio, due grandi scrittori come Cesare Pavese e Carlo Levi, entrambi piemontesi, entrambi confinati politici al Sud durante il fascismo. Stefano, il protagonista del romanzo di Pavese “Il carcere”, nato dall’esperienza dello scrittore a Brancaleone, in Calabria, si lascia sedurre – senza per altro avere il coraggio di farvi sesso – da Concia, una giovane serva, dall’incedere scattante, quasi a balze e “dal viso bruno e caprigno”. Secondo Gianni Carteri, critico e profondo conoscitore di Pavese, nella fantasia di Pavese Concia è l’incarnazione della dea Artemide, dea dei boschi e della caccia. Più esplicito è invece Carlo Levi in “Cristo si è fermato ad Eboli”, nato dal suo confino ad Aliano, in Basilicata: “Per il contadino la capra è realmente quello che era un tempo il Satiro. Un satiro vero e vivo, magro e affamato, con le corna curve sul capo e il naso arcuato, e le mammelle e il sesso penzolanti, peloso, un povero satiro fraterno e selvatico in cerca di erba spinosa sull’orlo dei precipizi”.
E così giacciono le nostre capre, sull’orlo di un precipizio, ad osservarci enigmatiche mentre il vento scompiglia le loro pellicce.

Uno degli ammassi rocciosi di Pietra di Febo. Ph F. Bevilacqua

A guardarle negli occhi con attenzione, le capre turbano i semplici cittadini, coloro che pensano alla campagna, ai boschi, alle montagne, agli oceani come a realtà virtuali che si possono osservare stando comodamente seduti dinanzi alla televisione nei filmati del National Geographic. I veri cittadini, scrive Celine in “Viaggio al termine della notte”, trovano spaventosa la natura, anche quando è addomesticata, perché essa dà loro angoscia. Così l’occhio, lo sguardo, l’espressione, il volto della capra del Sud, ben ritratto nel film di Michelangelo Frammartino “Le quattro volte”. Un film, girato in Calabria, tra Caulonia, Serra San Bruno, Alessandria del Carretto, intriso di quel senso del sacro, del divino, del magico che solo al Sud ancora persiste come una memoria ancestrale. Non per nulla le vere protagoniste del film sono le capre, che nella totale assenza di parlato, scandiscono i tempi della pellicola, con i loro strazianti belati, gli scampanellii, il tambureggiare degli zoccoli sulla terra, il frusciare delle ispide pellicce. Ci sono due scene inquietanti eppure bellissime nel film. La prima è quando un agnellino si sperde e giace solo, come in attesa della morte, sotto un grande abete bianco solitario. La seconda è quando mamma capra partorisce il suo cucciolo, lo accudisce, elimina la placenta mangiandola, lo pulisce con la lingua. Morte e vita: è l’idea ciclica della storia che pervadeva le religioni precristiane e che ancora oggi si può leggere nei paesi e nelle campagne del Sud. C’è in tutto il film una dimensione della natura (e dell’esistenza) che a chi vive in città, immerso nella cultura urbana, sfugge completamente.

Resti di fortificazioni a Pietra Castello. Ph F. Bevilacqua

Un ultimo, faticoso aggiramento, ci porta a Pietra Castello, dal versante che sovrasta la Buonamico, con un inconfondibile picco dalla sommità arrotondata. Questa volta non ci arrampichiamo sulla cima lungo l’esposto percorso scavato nella roccia (si vedono ancora alcuni gradini) perché il vento e troppo forte e potrebbe strapparci letteralmente dalla rupe. Sostiamo, invece ad ammirare le rovine dell’antico fortilizio che dà il nome alla pietra. Muri di pietra, cisterne per l’acqua piovana, cavità. I custodi di questo luogo dovevano salire regolarmente sulla cima (per quanto pericoloso fosse avventurarvisi) per scrutare una grande porzione di territorio e, se necessario, fare delle segnalazioni.
Rovine. Il luogo in cui siamo è fatto di rovine. Ma queste pietre sberciate sanno ancora parlare. Non sono divenute macerie. La Calabria tutta, sconvolta dalle catastrofi naturali, afflitta dalla rassegnazione e dall’ignavia, è una terra di rovine. Ma anche le rovine hanno un’anima. Anche le rovine hanno una dignità. Anche le rovine hanno un valore. L’uomo di tutto conosce il prezzo, di nulla il valore, qualcuno diceva. Quando i calabresi avranno abiurato questo detto, le rovine diverranno la loro ricchezza

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