Dove si nasconde Polifemo. Tra le cascate del torrente Nessi in Aspromonte…

Con ‘sta storia che “gli ultimi saranno i primi”. E se gli ultimi stessero bene tra di loro e non volessero avere nulla a che fare con i primi? Se gli ultimi rivendicassero solo la loro dignità? Senza per questo desiderare i privilegi dei primi. E se qualche primo fosse disposto a rinunciare ai suoi privilegi per stare con gli ultimi?

Aspromonte. Valle Gelsi Bianchi. Mandre Vecchie. Foto Francesco Bevilacqua

E se ultimi e primi desiderassero una società che non ci costringesse a rincorrere sogni infiniti? Che ci lasciasse liberi di restare umili, di non seguire le mode, di non desiderare di possedere tutto ciò che ci viene presentato come necessario e che necessario non è. E se gli ultimi e i primi decidessero che non vogliono essere posseduti dal demone di produrre e consumare, come dei bulimici? E’ davvero impossibile credere in qualcosa di profondamente, radicalmente diverso da questa farsa perenne in cui siamo costretti a vivere? Temo che sia pura utopia. Nelle moderne società laiche e desacralizzate, rose dal tarlo del consumismo e dell’edonismo (ricordate il Pasolini degli “Scritti corsari”?) vorrebbe dire divenire degli emarginati, degli estranei, degli asociali. Dove vige l’etica della competizione e della crescita, dove Dio non è più quello delle sacre scritture ma quello delle zecche di Stato, dove l’Evangelo è la carta moneta o, ancora meglio, il denaro virtuale della grande finanza criminale che domina e condiziona i mercati, che può gettare sull’orlo del baratro intere nazioni, impoverire milioni di persone, non c’è spazio per la guarigione da questa pandemia che ci affligge. E di cui nessuna organizzazione mondiale della sanità vuol prendere coscienza.
Ogni mia escursione in natura ha un pensiero che la abita. Come un colonna sonora. Un pensiero che si è sedimentato nella mente durante la settimana. Per una lettura, una riflessione, uno scambio di opinioni. Un pensiero sfuggito alla routine del lavoro, alle ansie quotidiane. E che si è insediato nell’encefalo come un file di memoria. La cui urgenza trabocca, al mattino presto, nel buio che precede l’alba, quando, con i miei compagni, filiamo, in auto, verso la nostra meta.
Una domenica di fine inverno. Ha piovuto durante la settimana. E’ questo il periodo in cui comincia il disgelo sui monti ed i torrenti mugghiano sul fondo dei loro meandri, stretti tra le pendici delle valli. Si va per contemplare l’acqua. Non per diguazzare in fresche pozze color smeraldo, come d’estate. Ma per osservare, piuttosto, la furia liquida, che s’affolla nei suoi alvei di roccia. Come costretta dall’urgenza di correre al mare. E quietarsi.

Aspromonte. Cascate basse del Torrente Nessi. Foto Francesco Bevilacqua

In macchina discutiamo dell’obbligo di competere che sembra essere il problema delle nostre società dell’assolutismo economicista. Quante volte abbiamo sentito dire: “occorre maggiore competitività!”. E spesso chi pronuncia questa frase non si è mai fermato a riflettere sul suo reale significato. Se l’imperativo vale per tutti, il mondo diverrà (è già divenuto) un immenso calderone ribollente di gente che si sente autorizzata a rincorrersi, superarsi, abbattersi a vicenda. Ed ogni metodo diviene lecito (anzi etico). Come dimostra, ad esempio, il disastroso fenomeno della delocalizzazione delle manifatture industriali in paesi del terzo mondo, dove i lavoratori vengono sfruttati come schiavi.
Ma la cosa più grave è che la competizione allarga, anziché accorciare, la forbice delle differenze tra i tanti poveri del mondo ed i pochissimi straricchi. Per competere efficacemente, infatti, oggi non basta più la creatività, l’innovazione, la buona volontà (a parte qualche fortunato self made man). Perché ci sarà sempre qualcuno che ha più mezzi di te. E questi mezzi sono ormai di natura esclusivamente finanziaria. Bastano i soldi, per fare soldi. Basta il mercato finanziario, sfruttato con furbizia e cinismo, per cancellare ogni illusione che possa esservi una sana ed equa competizione.
Giungiamo a Ciminà, paese legato a tristi ricordi di ‘ndrangheta, ma abitato, invece, da tanta gente umile e pacifica, ai piedi dell’Aspromonte orientale. Loro non lo sanno, non lo ricordano più, ma quelle case affastellate e malamente modernizzate, stanno sull’orlo del Paradiso. Un paradiso di montagne, rupi, gole fluviali, boschi. Che in pochi conoscono. Dissolte nella memoria ancestrale. Esattamente come si è dissolta, in pochi decenni, quella civiltà contadina e pastorale che narrarono Alvaro, Perri, Seminara, Strati, La Cava, Montalto. E che per fortuna resta immortalata nelle loro opere.
Anche a Ciminà, come dappertutto del resto, il globale ha preso il sopravvento sul locale. Il miraggio di un’altra civiltà, quella industriale e consumistica, ha mietuto vittime anche quaggiù. A Ciminà, come a Platì, come a San Luca, come in tanti altri paesi dell’interno, vivono “comunità provvisorie” come dice Franco Arminio. La gente è ferma, attende.

Aspromonte. Il sentiero che risale dalle cascate basse del Torrente Nessi. Foto Francesco Bevilacqua

Cosa, nessuno lo sa più. Un tempo era un’industria, una strada, un’opera pubblica, la forestazione, un finanziamento. Oggi è il nulla. L’attesa è divenuta letargo. Ma senza speranza di risveglio. Eppure, Ciminà sopravvive sull’orlo del Paradiso.
Percorriamo la stradina che dalla parte alta del paese taglia diagonalmente la pendice in sinistra idrografica della valle della Fiumara Gelsi Bianchi (nome evocatore, forse, dell’epopea, anch’essa dimenticata, della seta, che fu, un tempo, una delle prime manifatture della Calabria). Dove finisce la strada, in quel “nulla” topografico che solo qualche contadino e pastore ricorda, lasciamo l’auto. Una scrofa chiazzata ci osserva curiosa da una lettiera di foglie e ghiande, mentre indossiamo gli zaini. Prendiamo una vecchia mulattiera che risale a fianco di un uliveto con una casetta colonica. Chiusa e vuota naturalmente. Ci addentriamo nel “nulla”. Che poi non è, per fortuna, un “nulla” assoluto. Nel silenzio e nella solitudine, infatti, tutto è racconto. Muretti a secco, terrazzamenti, alberi da frutta, una baracca, querce gigantesche, prati, boscaglie, un’altra casetta di pietre. Parlano di vite lontane, narrano storie dimenticate. Il sentiero è ora appena accennato. Si districa in una lingua di fitta foresta che ha riconquistato i coltivi a causa dell’abbandono.
Improvvisamente siamo alle Mandre Vecchie. Una muraglia di grosse pietre sbarra il passo. Ci troviamo su un leggero declivio fuori dal bosco. E’ un grande dedalo di muraglie. Se non fosse per il nome, si stenterebbe ad intuirne il significato, la funzione.
Si potrebbe credere di essere capitati in un nascondiglio di giganti. Una voce interiore avverte: qui si nasconde Polifemo. Dacché lo scaltro Ulisse l’accecò e lo derubò, è venuto a rifugiarsi in questo recesso remoto. Cieco, malinconico, ma in compagnia di tutti gli dei incubici dell’Aspromonte.
Sostiamo, stupiti, di fronte ad un’enorme “mandra”, un agglomerato di stazzi e rifugi di pastori. Mai visto nulla di simile sulle montagne calabresi. Le muraglie delimitano un vasto parallelepipedo con i lati lunghi centinaia di metri. Una sorta di fortezza pastorale. Al cui interno altri muri, più piccoli, ritagliano spazi di ogni dimensione: largi, stretti, oblunghi, circolari. Spesso incastonati in mezzo a rocce. Un giardino di pietra. In cui si sono insinuati arbusti ed alberi, non più morsi dalle capre.
Restano anche, a tratti, i tetti di travi grezze e di tegole.
Cinquant’anni fa qui doveva brulicare la vita. Migliaia di capi, decine di pastori, forse intere famiglie. Caldaie in cui gorgogliava il latte cagliato, come nell’incipit di “Gente in Aspromonte” di Alvaro. Uomini e donne vestiti di orbace e di pelli intenti alle loro diuturne incombenze.

Aspromonte. Cascate alte del Torrente Nessi. Ph F. Bevilacqua

Mungere gli animali, raccogliere il latte, fare la ricotta e il formaggio, radunare le greggi, condurle al pascolo su per i monti, tornare alle mandre sul far della sera, ricoverare gli animali negli stazzi, sedersi attorno al fuoco, lasciarsi cullare della fiamme, raccontare storie, addormentarsi sui pagliericci. Una vita uguale da millenni. Una società arcaica. Luoghi, strutture, utensili, tecniche, gesti identici forse dalla preistoria. Una comunità viva, palpitante, identitaria. Povera certo, ma pur sempre una comunità, con un orizzonte storico dietro e davanti a sé. Non “provvisoria”, dimentica di se stessa, dispersa, letargica, dubbiosa, in ansia per il futuro, come quella attuale.
Ci distacchiamo con difficoltà dalle Mandre Vecchie. Vorremmo visitarne ogni angolo. Il bosco ci risucchia. La valle si restringe, La Fiumara Gelsi Bianchi mostra il suo stretto letto ghiaioso molto più in basso. Qualche vecchia pista scende verso essa. Noi saliamo, invece, gradualmente, verso un affluente in sinistra, il Torrente Nessi, la cui gola precipita dalla sella tra il Monte Antoninello ed il Monte Pinto, appena sotto i Piani di Moleti. Il paesaggio si fa severo. Sfasciumi di roccia circondano il sentiero. Mentre in alto si ergono rupi proterve come fortezze medievali. E’ l’Aspromonte della leggenda, inestricabile, impervio, dedalico. Quello raccontato da Edward Lear, Charles Didier, Norman Douglas.
E in un dedalo siamo davvero. La foresta di lecci ci avvolge. Come se volesse incorporarci, annetterci a se stessa. Nessuno che attraversi queste giungle può non sentirsene parte. Gli alberi, il bosco, le rocce, il vento sono creature vive. E come tali vogliono essere riconosciute. Come tale ti riconoscono. Come quando un vecchio amico torna, dopo tanto tempo, a trovare una famiglia conosciuta. Ti riempiono di premure. A loro modo, ovviamente. Sei cullato dallo stormire del vento tra le fronde; ti incanta il gorgogliare dell’acqua nei ruscelli, a camminare producendo lievi scricchiolii tra le pietre e le foglie, ad attraversare raggi di sole densi di pulviscolo sfuggiti all’ordito delle foglie e dei rami.
La foresta è anche la casa degli spiriti. Risvegliati all’improvviso dalla nostra presenza. Sono spiriti burloni. Ti mettono alla prova. Ti tendono piccoli tranelli durante il percorso. Vogliono capire chi sei veramente. Se stai lì per tagliare, scavare, rovistare, asportare, rovinare, bruciare, come tanti hanno fatto in un passato anche recente. O se fai parte di quegli strani  umani che vogliono intessere un dialogo con loro.
Non c’è traccia di altre persone. Non udiamo scapanellio di animali. Non una carta sporca la lettiera di foglie secche, non un bossolo. Non una traccia di ruspa o motosega. E’ un luogo miracolosamente scampato alla violenza dell’uomo.

Aspromonte. Veduta delle gole del Torrente Nessi. Foto Francesco Bevilacqua

Sappiamo che il Nessi ha un corso tormentato e precipite. Cerchiamo l’acqua. Come rabdomanti.
Un sentiero secondario si stacca a sinistra, dalla bella mulattiera, ora di nuovo evidente, che invece sale. E’ il momento di provare a scendere verso la gola. Udiamo già il fragore dell’acqua. Una ripida, zig-zagante discesa nella macchia. La pista ora è appena percettibile. Aggiriamo una rupe ed eccoci finalmente nel regno fluido del Nessi. Ma non è un fluire qualunque. Nonostante la giornata luminosa, una grande nicchia è scavata nella roccia con la precisione di un bravo architetto, il gusto di un artista. Quando si dice “monumento naturale”! Le pareti grigio scure, umide, tappezzate di licheni, convergono verso uno stretto budello centrale dove l’acqua si è aperta un piccolo canyon verticale, un taglio, una fenditura tra le rupi, che parte dall’alto, poco a sinistra, per sbandare sul centro, impattare nel primo gradino naturale, sbandare ancora sul verso opposto, colare nuovamente, impattare ancora, ribaltarsi ulteriormente. Sino alla larga pozza finale. Dove domina il verde avion, buio e trasparente, dell’acqua profonda del “gurnale”.
E’ un lungo momento di contemplazione. Sferzati dall’aria smossa dalla furia dell’acqua e dagli spruzzi di umidità. Incantati dal fluire eterno dell’acqua. Intenti a contemplare questa meraviglia, da ogni posizione possibile, da ogni angolatura. Mi sorprendo a pensare alla gratuità dell’acqua, al suo scorrere perenne, al suo continuo fecondare la terra. E’ il simbolo della generosità della natura. “Se la natura ponesse in atto il nostro concetto di soddisfazione – scrive Gibran – i fiumi non si tufferebbero nel mare, né l’inverno lascerebbe il posto alla primavera. Se ponesse in atto il nostro concetto di parsimonia, quanti di noi respirerebbero quest’aria?”
Risaliamo lungo il sentiero e riprendiamo la mulattiera che s’inerpica lungo la pendice, nel bosco selvaggio. Sulla sinistra, la gola del Nessi si fa sempre più stretta ed impervia. Siamo di nuovo nel sole. Il cielo azzurro d’Aspromonte irradia il mondo d’una luce chiara, tersa. Nella valle fiorisce l’erica. Milioni di piccole campanule bianche che esplodono in sbuffi di polvere diamantina. Presentendo una rupe eccezionalmente panoramica, deviamo dal percorso, sulla sinistra, per raggiungerla. Siamo su un magnifico abisso. Il Nessi scende vorticoso verso la Gelsi Bianchi. Poco in basso intravediamo un’altra cascata. Torniamo indietro e proseguiamo lungo la mulattiera, attendendoci una deviazione plausibile, simile alla prima.

Aspromonte. Secondo salto delle cascate alte del Torrente Nessi. Foto Francesco Bevilacqua

Ma dopo un po’ di cammino congetturiamo che stiamo salendo troppo in alto. Siamo ormai ben oltre il punto in cui avevamo intravisto la cascata. Torniamo sui nostri passi. Attenti come animali. Vigili. Cerchiamo una traccia, un segno, una traiettoria che ci dicano che è possibile raggiungere la base dell’altra cascata. Non c’è nulla che assomigli ad un sentiero, a una pista, a un camminamento. Ma il vallone nel bosco sembra in linea con il punto traguardato dall’alto. Proviamo. Lasciamo segni per il ritorno. Tagliamo lateralmente sulla pendice. Sbuchiamo su un ripido costone sul quale si protendono lecci contorni, artigliati a grumi di roccia. Siamo vicini. Una sorta di via naturale ci porta presso il greto. Un breve passaggio esposto e siamo sul torrente, sotto la “cannila” del Nessi, la candela, per la sua forma perfettamente dritta. La cascata è in piena luce. Una luce abbacinante. L’atmosfera è esattamente opposta a quella della prima cascata. Quello era un luogo quasi segreto. Questo è aperto. Lì regnava l’ombra. Qui il sole. Il grigio della roccia è asciutto e chiaro. L’acqua della cascata un solo, lungo fluire, dal bordo superiore sino al lago di smeraldo, perfettamente trasparente, che l’accoglie.
Risaliamo alla mulattiera. Abbiamo perso molto tempo a fotografare le cascate. Un segnale di legno indica un qualche percorso che, ipotizziamo, sale verso Monte Pinto. Sarebbe bello proseguire. Ma dobbiamo rientrare.
Ripercorriamo il sentiero all’inverso. Ecco le Mandre Vecchie. La luce pomeridiana ha mutato le prospettive. Restiamo a lungo dubbiosi su dove sia il percorso oltre le muraglie. Ispezioniamo la muraglia orientale. Per fortuna la nostra mente incamera dati meglio di un computer. Elaboro. Ragiono. Perdere la via in queste solitudini vuol dire far notte. Ed essere costretti a dormire all’addiaccio. Mi è già capitato. Scorgo un muro a secco di contenimento di una scarpata che ricordo di aver notato al ritorno. Credo sia il percorso giusto. Gradualmente riconosciamo altri elementi del paesaggio, alberi, rocce. Alla casetta colonica ci rilassiamo. Siamo sulla strada giusta. Un lungo biacco salta da un cespuglio ed attraversa il sentiero. Il caldo primaverile deve averlo risvegliato anzitempo. Le arance e i limoni del podere rilucono come fiammelle. Raggiungiamo la macchina. La scrofa è sempre lì. Le ghiande della grande quercia le bastano. Non ha bisogno di investire e competere. E’ felice così. Sa quel che le è davvero necessario. Certo, come tutti gli animali, non sa di dover morire. E questo pensiero differenzierebbe l’uomo dagli animali, secondo i grandi filosofi. Non so se i filosofi abbiano ragione. Io so solo che ho sempre pensato alla vita come a una parentesi. Una volta, non lontano da qui, un pastore al quale avevo chiesto se il sentiero portasse da qualche parte in particolare, mi rispose: “finisce qui”. E di fronte alla mia perplessità, aggiunse: “a tutto c’è una fine”.
Benché l’uomo ce la stia mettendo tutta per portare l’umanità alla sua fine catastrofica, i luoghi un tempo vissuti da civiltà che non conoscevano i trucchi e le speculazioni dei moderni mercati e dell’alta finanza, insegnano ancora qualcosa, mostrano la via. Che non significa azzerare le conquiste tecnologiche e scientifiche. Ma che vuol dire, più semplicemente, sottrarle al dominio dell’ingordigia e riportarle al servizio della tenerezza.
Oggi siamo passati in mezzo a rovine. Quelle pietre non sono divenute macerie. La Calabria tutta, sconvolta dalle catastrofi naturali, afflitta dalla rassegnazione e dall’ignavia, è una terra di rovine. Ma anche le rovine hanno un’anima. Anche le rovine hanno una dignità. Anche le rovine hanno un valore. L’uomo di tutto conosce il prezzo, di nulla il valore, qualcuno diceva. La gente di Ciminà, come di qualunque altro paese dell’interno, ha bisogno di essere capita ed amata. Ha bisogno che qualcuno le parli sinceramente, per una volta. Che la prenda per mano e la riporti in quel Paradiso che noi abbiamo percorso oggi. Quando questa gente – che non vive affatto in mezzo al nulla – avrà rialzato la testa, preso consapevolezza della dignità del suo passato e dei suoi luoghi, le rovine diverranno la sua ricchezza.

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