La Valle dell’Argentino. Nel ventre di Gea, la Dea Madre

Non posso starti lontano a lungo, Valle del Fiume Argentino. Vengo a trovarti da oltre trent’anni e ancora non ti conosco tutta. Il mio corpo ti cerca. La mente ti pensa. L’anima ha bisogno dei tuoi rifugi segreti. Ricordo i tuoi colori, i tuoi odori, i tuoi umori, la sensazione di meraviglia e di timore che m’invade quando sono nei tuoi recessi più isolati ed impervi.

Il versante in destra idrografica della Valle dell'Argentino. Foto F. Bevilacqua

Il versante in destra idrografica della Valle dell’Argentino. Foto F. Bevilacqua

Solitudine e silenzio. L’acqua è un fluido furente e vorticoso. Alti alberi si piegano sul fiume. Come attratti. Si schiantano e restano lì morenti. Eppur vivi. Intorno la foresta è fitta, avvolgente, a tratti soffocante. Una giungla. In alto incombono rupi. Festonate di lecci e pini. Una sequela infinita di picchi, pareti, fenditure, grotte, burroni. L’acqua sgorga dappertutto. Sorgenti, pantani, ruscelli. L’ultimo ponte prelude al tuo ventre profondo. Dove pochi osano. Qualcuno ci ha rimesso la vita. Tanti vi si sono spersi. La sensazione di non essere del tutto sicuro mi attrae. Come se desiderassi sparire. So che devo fare attenzione quando seguo una traccia. Il ritorno non è scontato. All’inizio non eri così. Mostravi ancora coltivi in luoghi remoti, piccole case di pietra, rifugi di fronde e legni. Fosti la patria di centinaia, forse migliaia di monaci italo-greci. Sperduti sui picchi più alti. Rintanati nelle grotte. Eri parte del Mercurion, la nuova Tebaide in terra di Calabria. Tutti i sentieri erano attivi. Portavano ovunque: Fellaro, Golfo della Serra, Milari, Castello Brancato, Salviosa, Falaschere, Castel di Noceto, Golfo della Serra, Fornelli, Mangiacaniglia, Corno Mozzo, Pietra Palomba, Pietra Campanara, Camagna, Garrola, Castel di Raione. Consentivano di attraversare da e verso l’interno: Campotenese, la conca del Coscile, il Vallo del Crati. Nomi evocatori. Oggi raccontano storie lontane. La natura selvaggia li ha inghiottiti. I tuoi sono cammini dedalici, labirinti geografici ma anche interiori. Ogni volta mi sento come l’insetto della poesia di Neruda: vorrei esplorare ogni piega del tuo corpo. Mia cara, io sono dentro di te, tu sei dentro di me.
Domenica di fine estate. Torno nella valle che amo. Forse più di altri luoghi. Questa volta per tentare di ripercorrere un antico tragitto che da Povera Mosca (il punto più avanzato in cui si penetra in auto lungo la stradina di fondovalle che parte dal bellissimo paese di Orsomarso) penetra nel fondo di un impervio “imbuto” oro-idrografico. Dove calano le ripide pendici provenienti dai soprastanti rilievi del Gruppo del Monte Palanuda. Al Varco della Gatta due rupi si fronteggiano. L’Argentino, appena formato dal confluire delle acque della Fiumarella di Rossale e di quella di Tavolara, vi forma uno stretto, tenebroso passaggio tra le rocce. Un pezzo della vecchia teleferica per l’esbosco del legname vi penzolava ancora, l’ultima volta che vi giunsi, molti, molti anni fa.

Uno scorcio del ruscello del Golfo della Serra. Foto F. Bevilacqua

Uno scorcio del ruscello del Golfo della Serra. Foto F. Bevilacqua

Consulto la descrizione dell’itinerario sulla mia guida ai Monti dell’Orsomarso edita da Il Coscile nel 1995. Il tragitto è descritto tra i possibili prolungamenti dell’ordinario percorso che conduce sino a Pantagnoli (località, ben più vicina, raggiunta oggi da un comodo sentiero attrezzato con ponti). Indicai allora pochi particolari e precisai che occorrevano quattro ore di cammino sino al Varco della Gatta. Vi ero stato, percorrendo l’intero tragitto, una sola volta. Sono qui per rievocare un rito iniziatico. So che celebreremo un rito propiziatorio. Per la valle. Che è anche l’incarnazione della Dea Madre.
L’inizio ce lo ricorda Esiodo nella Teogonia: “Gea per primo generò, uguale a sé Urano stellato, ché tutta in giro la chiudesse”: la prima divinità fu, dunque, donna ed ebbe il dono della creazione. Era Gea o Gaia, la Dea Madre, Madre Terra. La sua forza era nel mistero, tutto femminile, della fecondità. Troviamo il culto della Madre Terra, nelle cosmogonie di altri popoli sparsi in ogni angolo del globo. Come testimonia Mircea Eliade nella sua “Storia delle religioni”. Questo antico culto ha come punto fondante la natura “cosmica” della Terra. La quale si identifica con l’ambiente naturale in cui vive una determinata comunità umana. La “Terra” è tutto quanto circonda la comunità officiante il culto, è il “luogo” stesso, con le sue montagne, le sue acque, la sua vegetazione. I figli non sono il frutto dell’incontro tra la donna e l’uomo, ma la misteriosa accoglienza nel corpo femminile di qualcosa che proviene dal luogo. Non si fa fatica a capire, dunque, perché tutte le culture primitive (comprese le società agro-pastorali pre-industriali) nutrano un sentimento – individuale e comunitario, conscio ed inconscio – di solidarietà con l’ambiente circostante, con il luogo. In tempi moderni, Marija Gimbutas, dopo una intera vita di studi e scavi archeologici, trovò la prove inconfutabili della sua tesi (il suo libro più noto è “Il linguaggio della dea”): tra il 7000 ed il 3500 a. C. nel Mediterraneo dominò il matriarcato.
Prima che l’invasione indoeuropea travolgesse quella civiltà, con i suoi culti maschili e violenti. Ma la Dea Madre non morì. Divenne semmai incubica, celata. L’antica dea uccello – scrive Elémire Zolla (ne “Il matriarcato e le selve” in “Lo stupore infantile”) – che portava la vita e decretava la morte, tornò a simboleggiare la fecondità della natura, i cicli di nascita, morte e rinascita delle civiltà cerealicole.

Uno dei cucioli di capriolo avvistati sull'Argentino. Foto F. Bevilacqua

Uno dei cucioli di capriolo avvistati sull’Argentino. Foto F. Bevilacqua

Divenne Atena in Grecia, Morrighan in Irlanda, Laima fra i Baltici, la Madonna nel Cristianesimo.
Partiamo da Povera Mosca, nome curioso con il quale si designa il punto in cui termina la sterrata carrabile ed occorre lasciare l’auto, nei pressi di un rifugio dove si trova da mangiare e da dormire. Che io chiamo, un po’ alla Tolkien, “l’ultima casa accogliente” prima delle terre selvagge. Perché un luogo selvaggio è davvero tornata tutta la parte interna della valle. In epoca bizantina, quest’area, come ho accennato, fu popolata da monaci che vivevano in asceteri (romitaggi isolati), laure (comunità di eremiti vicini l’uno al’altro) e cenobi (monasteri). Insieme alla vicina Valle e del Lao costituì uno dei punti di massima irradiazione del monachesimo italo-bizantino. Come testimonia Giovanni Russo (in “La valle dei monasteri, il Mercurion e l’Argentino”), proprio tra questi monti visse la sua esperienza ascetica il più grande mistico della Calabria Bizantina, San Nilo da Rossano (il suo asceterio era probabilmente la Grotta dell’Angelo, sulla Timpa della Simara), e lo stesso centro di Orsomarso sarebbe nato attorno ad un cenobio. Durante la dominazione bizantina e subito dopo, diverse rupi a picco su passaggi strategici ospitarono piccoli fortilizi. I toponimi (ed i resti di mura) li ricordano ancora: Castel di Raione, Castel di Noceto, Castello Brancato. Poi, durante tutta la prima metà del Novecento, si susseguirono, senza sosta, i tagli industriali di queste foreste prima inviolate. Vi si costruirono perfino teleferiche e ferrovie a scartamento ridotto che servivano per l’esbosco del legname. Descrive quelle selve con terrore, nel 1810, l’ufficiale dell’esercito Napoleonico Duret de Tavel, in alcuni passi del suo diario, laddove narra di un’incursione da Mormanno ad Orsomarso per punire degli insorti. Ed anche il geologo Emilio Cortese, nella prima opera riguardante la geologia della Calabria, pubblicata nel 1895, parla della valle dell’Argentino come di un intrico di valloni “profondi, orridi ed inesplorati”, con boschi costituiti da faggi giganteschi ed abeti.
Non vi sono difficoltà sino a Pantagnoli. Il Parco Nazionale del Pollino vi ha fatto realizzare dei comodi ponti. I problemi iniziano dopo il bivio segnalato che consentirebbe di tornare indietro compiendo un anello e passando prima sotto Castello di Noceto e poi nella Valle di Milari. Da qui in avanti il sentiero che percorsi tanti anni fa è in più punti perduto a causa della vegetazione che vi è ricresciuta e delle frane che lo hanno colpito.

Uno scorcio del Fiume Argentino presso Pantagnoli. Foto F. Bevilacqua

Uno scorcio del Fiume Argentino presso Pantagnoli. Foto F. Bevilacqua

E poi, qui non viene quasi mai nessuno. Passiamo per una pozza dove diguazzano ululoni dal ventre giallo ed una minuscola Salamandrina dagli occhiali. Ecco un primo vallone laterale con un ruscello che forma una cascatella. Un nuovo ruscello, più piccolo, muscoso, proviene invece da poco sopra, dove vi è una sorgente con un muretto a secco. Siamo nella zona del Golfo della Serra. E’ qui che la vegetazione ha invaso la sede del vecchio sentiero, disorientando il viaggiatore. Ma in altre camminate preparatorie recenti ho ispezionato la zona e trovato il passaggio, segnandolo. Guadiamo in un altro ruscello più copioso che precipita vorticosamente (e con una bella cascata non visibile dal sentiero) nell’Argentino. Risaliamo sul lato opposto sino ad un costone con bassi lecci sino a ritrovare la traccia del sentiero, che scende lievemente a mezza costa. Osserviamo uno strano serpentello, dal corpo lungo ed uniforme, beige, lucido, che si nasconde presto alla vista. Poco dopo, invece, passo, senza accorgermene, accanto ad una grossa vipera acciambellata sotto un arbusto, lato monte del sentiero. Gli altri, dietro, la vedono e si fermano. Sfila lenta e solenne verso la scarpata sottostante. Siamo ora al lungo e complesso attraversamento della dirupata zona di Fellaro. Compare qualche Pino nero (Pinus nigra Arnold), una specie tipica del Pollino e dell’Orsomarso, meno nota ed indagata del più famoso Pino loricato. I dirupi che sovrastano questa zona della valle ne sono pieni. Qualche improvvisa veduta sulla valle interrompe il lungo percorso in foresta. Il sentiero compie poi una serie di tornanti per salire di quota e rimettersi di nuovo a mezza costa sulla valle. Passiamo sotto una parete rocciosa a forma di riparo. Vi notiamo delle incisioni non recenti: sono delle croci greche, testimonianza forse, dell’antica frequentazione dei monaci. Attraversiamo una zona con frane ed alberi schiantati e passiamo per una serie di piccoli valichi. L’ultimo conserva ancora i pezzi della teleferica per l’esbosco del legname. Proseguiamo ancora sino ad un altro vallone. Si tratta certamente del Fornelli. Sono quattro ore che camminiamo.
Qui ci si offrono due possibilità: scendere a destra verso l’Argentino giungendo sul greto poco a monte di una bellissima cascata che visitammo in un’altra occasione, provenienti da Timpone Camagna; oppure proseguire a mezza costa per raggiungere il Varco della Gatta. Stimo in circa tre quarti d’ora l’ulteriore cammino da compiere. Stiamo per optare per la seconda scelta, quando il cielo comincia a rabbuiarsi e a rantolare sinistramente.

Salamandrina dagli occhiali. Foto F. Bevilacqua

Salamandrina dagli occhiali. Foto F. Bevilacqua

Le previsioni dicevano pioggia nel pomeriggio. Avendo un lungo tragitto da fare per il rientro, decidiamo di non forzare. Ripercorriamo all’inverso tutto il sentiero. Al Golfo della Serra notiamo i resti della parte superiore del cranio di un Cinghiale. A Pantagnoli la minaccia di pioggia svanisce. Sostiamo accanto ad una sorgente per rifocillarci. Riprendiamo il cammino. Una grossa e rapida Natrice dal collare ci attraversa il sentiero, tra i pantani erbosi. Pur avendolo ormai immortalato tante volte, non resisto alla tentazione di scattare qualche altra foto all’Argentino. Mi attardo, da solo. Gli altri proseguono. Ci ritroviamo, più tardi, all’auto. Mentre, dopo quasi otto ore di cammino, assaporo il riposo e sto per cambiarmi gli abiti fradici di sudore,mi accordo che una delle aste lenticolari del treppiedi manca all’appello. E’ scivolata dal suo alveo. Capisco subito che deve essere caduta quando ho usato il treppiedi per fotografare il fiume nell’ombra. Il punto è nei pressi di Pantagnoli. Benché stanco, decido di tornare indietro da solo a cercarla.
Cammino veloce, grondante sudore, preda di una lieve vertigine: l’eccessiva perdita di liquidi, sali e zuccheri? La fatica? Può essere. Sento però che c’è dell’altro. Penso a perché mi sia accaduto di aver perso quell’oggetto. E di aver dovuto prolungare così tanto il cammino. Forse mi attende una sorpresa. Magari l’avvistamento di un animale selvatico, che da queste parti non è raro. Sino all’auto non accade nulla. Sorrido della mia creduloneria nelle coincidenze (Grazia Francescato, mia amica, ha dedicato due interi libri alle straordinarie coincidenze della sua vita). Ma dopo appena cinque minuti d’auto, lungo la sterrata di fondovalle, il mio sguardo percepisce qualcosa che si muove nell’acqua dell’Argentino, alla mia sinistra. Aguzzo la vista: tre caprioli, una madre con due piccoli, stanno attraversando a nuoto il fiume! Nella nostra direzione. Pianto l’auto e scendiamo. Gettiamo lo sguardo sotto di noi, alla base della scarpata, nell’ombra, sul limitare tra la vegetazione ripariale ed il greto. Mamma capriolo lecca teneramente due piccoli che brucano, intanto, beati, i teneri apici degli arbusti. Il fragore dell’acqua, la posizione, le impedisce di percepirci. Riusciamo perfino a girare qualche immagine. Godiamo estasiati di questa incredibile scena. Partecipano anche tre turisti che alloggiano al rifugio e passano da lì proprio in quel momento. Un piccolo rumore e mamma capriolo alza lo sguardo verso di noi. E’ un attimo. I miei occhi incontrano quelle due nocciole lucide, baluginanti. Che mi interrogano, senza giudicarmi. Ancora una volta scendo al fondo di me stesso. Nessun umano mi ha mai guardato a quel modo, ha mai denudato, in un attimo, gli artifici della mia mente. E’ lo sguardo stesso della Dea Madre, venuta a presenziare al rito propiziatorio che oggi le abbiamo dedicato.
I caprioli riattraversano il fiume e se ne vanno da dove sono venuti. Che privilegio! Che coincidenza! Ecco l’ho detto. Ora so la ragione per cui ho perso l’oggetto e son dovuto tornare indietro. Dovevo ritardare. Per poter avere il tempo di fare quell’incontro. Era scritto che avvenisse. Conosco anche le ragioni. Ma mi vergogno di parlarne qui. Sono troppo intime. Posso solo dire che hanno a che fare con i miei due figli. So però che persino Jung credeva nelle coincidenze. Per questo tipo di eventi, frequenti nella vita degli uomini (ad esempio: sogni qualcuno che non vedi da tempo e al mattino lo incontri davvero), coniò il principio di sincronicità. Due fatti coincidenti non sono necessariamente legati da rapporti causali. Esistono anche, dice Jung, le coincidenze significative acausali: dei fatti cioè coincidenti per i quali non troveremo mai un preciso nesso causale. Ma che nella nostra psiche sono legati da un significato profondo. E’ come se la vita, in quel momento, ti desse un’improvvisa risposta che attendevi, o un avvertimento, o una conferma. In chiave simbolica, secondo i codici segreti della psiche umana.
Un’altra coincidenza significante accade il giorno dopo l’escursione. Senza sapere nulla dell’avventura nell’Argentino, un’amica mi scrive di un’iniziativa in onore della Madre Terra, attendendo il solstizio d’estate, che si terrà a Rogliano il sabato successivo. Resto sbalordito. Ma ormai il “mio significato” è chiaro: quel rito doveva essere compiuto, quel giorno, in quel luogo. Perché nella religione matriarcale, vivificante, pacifica, profonda della Dea Madre c’è un messaggio di speranza. Per il mondo, certo, ma anche per la mia piccola anima dolorante e grata.

 

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