L’Aspromonte: una giungla con i fiumi come draghi. E a Galasìa nuotano le ninfe…

Primavera, mattino presto. Una bruma densa ed ovattata avvolge il bosco. La galleria tra i lecci precipita verso il basso, in un caos di pietre, legni secchi, humus. Sino a quietarsi, d’improvviso, sull’alveo del torrente. Il greto è un immenso deposito di uova di dinosauro pietrificate. L’acqua scroscia tra massi oblunghi e levigati di granito. Ha la voce di campanelli tintinnanti.
Una lieve folata di vento. La nebbia si sfilaccia, danza, svanisce. Sulla quinta appena disvelata compare Galasìa, la cascata.

La cascata Galasìa, su un ramo alto del T. Barvi, in Aspromonte. Foto F. Bevilacqua

Trenta, forse quaranta metri di salto in una piega di bruna roccia, irta e sberciata. L’acqua erompe dal budello superiore della gola, colta di sorpresa dal vuoto. Poi si tuffa verso il basso, separandosi in decine di rivi che si piegano nell’aria, s’infrangono sulle rocce, balzano ancora, si ripiegano in nuovo ordine. Sino a schiantarsi, furenti, nella grande pozza sottostante. La voce del fiume, ora, non è più un tintinnio ma un fragore.
Manco da diversi anni da questo luogo. Ieri ho rivisto le vecchie foto su un mio libro. Il quadro che osservo fatica a tornarmi familiare. Comprendo subito il perché. La valle è una creatura viva. Invecchia, si modifica, muta le sue sembianze. Nel tempo trascorso dal nostro ultimo incontro, le pendici di fianco a Galasìa sono in parte crollate. Solo l’alveo di roccia ha resistito, forgiato nei millenni dallo scorrimento dell’acqua. Avrei dovuto immaginarlo. Perché Galasìa viene da un vocabolo greco che significa esattamente “rovina”, “frana”.
Bastano pochi minuti per ristabilire la vecchia intesa. Guardo incantato Galasìa. Galasìa, stupita, mi osserva a sua volta. E’un travaso di umori. Se ne accorge anche l’aria, trapunta di stille opache, smossa dalla forza dell’acqua che precipita. E’ così che salutano le cascate. T’investono con il loro gelido vapore. Ti parlano con il loro rombo di tuono, che i locali, in Calabria, chiamano, emblematicamente, “schioppo”.
I tre compagni restano fermi e silenziosi, alle mie spalle. Sanno quando farsi da parte, rispettare il mio bisogno di intimità coi luoghi, osservare, restare in ascolto. Apprendono un linguaggio sconosciuto. Sento la loro emozione scorrere dietro di me, come il fluido che pervade il luogo. Galasìa sa. Conosce l’animo di chiunque arriva fin quaggiù. Sia che si tratti di una affollata comitiva estiva, sgangherata e urlante, convinta di trovarsi in un acqua park. Sia che si tratti di quattro strani personaggi come noi, che hanno sfidato il mal tempo per essere alla sua corte nel momento più propizio.
E infatti, la stagione dell’andar per cascate è la primavera, quando la portata d’acqua dei fiumi è maggiore. Ma bisogna scegliere i giorni non soleggiati, meglio se brumosi, quando la luce nelle gole è tenue e uniforme, la migliore per fotografare questi ambienti altrimenti difficili: luce e ombra insieme fanno impazzire gli esposimetri delle fotocamere.

Nel bosco di lecci, lungo il sentiero per le cascate del Barvi. Foto F. Bevilacqua

Osservo la bellezza perenne di Galasìa. Penso che quello spettacolo è sempre lì, ogni istante, di ogni giorno, di ogni anno, da secoli e millenni. E così sarà, sempre. Penso che la sua voce argentina si diffonderà nella valle anche quando sarò nuovamente indaffarato nella mia vita di tutti i giorni. Ed è un conforto saperlo. Esser certo che quel luogo è sempre lì, pronto ad accogliere e sedare la mia ansia di vivere.
Siamo partiti presto, stamane, da una curva lungo la strada che da Molochio sale al villaggio di Trepitò. Molochio è uno dei tanti paesi della parte più interna della Piana di Gioia e Rosarno, alle falde dell’Aspromonte occidentale. Uno dei meno devastati dall’abusivismo edilizio e dal caos urbanistico, che regnano sovrani in questa zona. Attraversando in auto la piana non abbiamo potuto non notare i cumuli di rifiuti, le architetture inintelligibili, la case mai finite, i nomi pretenziosi ed esotici degli esercizi commerciali, dei ristoranti, dei finti agriturismi, il famoso, maestoso bosco di ulivi della piana oltraggiato di carcasse, materiali edili, relitti di ogni tipo.
Ecco perché, non appena lasciato l’asfalto ed iniziata la ripida discesa lungo il sentiero nel bosco di lecci, ci siamo come liberati da un’ossessione, abbiamo pian piano ritrovato il genio dei luoghi, quell’identità estetica che tutt’intorno è stata sistematicamente cancellata. Posti come questi, in Calabria, esistono, a centinaia. A dispetto di chi dipinge la regione solo come un’immensa periferia urbana raffazzonata. La Calabria è certamente anche questo. Ma, per fortuna, non solo questo.
Siamo scesi lungo il sentiero che alcuni anni fa un gruppo di volontari di Molochio sistemò per consentire la visita alle cascate (e che abbisognerebbe di cure e manutenzioni periodiche).

La cascata superiore nelle gole del T. Barvi. Foto F. Bevilacqua

Lo abbiamo fatto lentamente, riprendendo con la telecamera, fotografando scorci del bosco immerso nella nebbia. Giunti sul primo fondo valle, dove scorre uno dei rami alti del torrente Barvi, abbiamo attraversato l’alveo, qui pure ricoperto dal bosco, e siamo saliti sul costone opposto per scendere poi verso un altro ramo, più grande e copioso. La dislocazione delle tre principali cascate del Barvi è complessa. Una (in realtà una serie) è sul primo ramo ma più in basso. Due (anche qui, una serie) sono sul secondo ramo, ma in alto. Oggi l’intuito mi ha detto di andare subito verso le cascate alte, le più lontane.
Sostiamo per un bel pezzo sotto Galasìa. Esploriamo attentamente ogni suo scorcio. Rinnovo un’amicizia che durerà per tutta la vita. Per i miei compagni è la prima volta. Devono fare le presentazioni. I luoghi sono esigenti. In pochi minuti vogliono sapere tutto di te. Tutto quel che conta, intendo. Esplorano il tuo animo con i loro occhi invisibili. I luoghi non sono attrazioni. Né monumenti naturali. Né “emergenze ambientali” da catalogare. Né fenomeni scientifici da studiare. Sono creature dotate d’anima e d’intelligenza, come credevano i filosofi antichi. E come hanno pensato (e pensano) i “primitivi”, con le loro religioni animiste.
Anche Galasìa è una creatura. Potrebbe essere l’incarnazione di una Ninfa. Una Naiade, magari, dea del fiume, appunto. Nella tradizione greco-latina le Ninfe erano, infatti, divinità che rappresentavano le forze primigenie della natura. E l’acqua che scorre perenne e disseta e ristora e dona refrigerio e ammalia, cos’altro è se non una divinità, per una persona d’animo semplice, disposta ancora allo stupore. E’ un elemento femminile, che richiama il liquido amniotico, ove ciascuno di noi è vissuto, in assenza di respiro, per i primi nove mesi della sua vita. Mi perdo a pensare che quell’acqua fluente e viva scorre da millenni e sempre continuerà a scorrere, dalla sorgente al mare. E, come diceva Eraclito, non sarà mai la stessa.

Un’altra immagine della cascata superiore del Barvi. Foro F. Bevilacqua

Ci stacchiamo da quella visione perché ci attende l’altra cascata, quella superiore. E non sappiamo bene come arrivarci, ora che la pendice di destra, sulla quale correva uno stretto sentiero, è franata. Risaliamo per un tratto il percorso dell’andata e tagliamo diagonalmente a sinistra in una zona stabilizzata della frana, dove in effetti troviamo segni di un labile camminamento, che altre mani accudenti devono aver tracciato. Le tipiche tacche che i pastori facevano con l’accetta sui tronchi (gli antichi segni per ritrovare la strada), i rami tagliati e una traccia di calpestio appena accennata ci conducono sul tratto superiore delle gole. Il cielo è sempre coperto da una trapunta di nuvole grigie che minaccia pioggia. Il camminamento giunge sul greto, che risaliamo ancora. Ed ecco la seconda cascata, se possibile, ancor più bella della prima.
Difficile descrivere la sua forma. L’acqua fuoriesce da uno stretto pertugio e si spande uniformemente, allargandosi da tutti i lati, in maniera quasi simmetrica. E’ come il grandioso gioco d’acqua di una fontana monumentale, come la gonna a palloncino di una dama dell’Ottocento. Il torrente si sfrangia a raggiera in decine di traiettorie che si abbombano e si gonfiano come le inferriate di un bancone barocco, sino a zampillare nel laghetto sottostante.
Nel ritornare indietro (risalire ancora la gola è molto difficile) esploriamo ogni tratto dell’alveo tra le due cascate. Ricordo un capitolo di “Vecchia Calabria” di Norman Douglas – richiamato anche da Roberto Calasso nel suo “La follia che viene dalle Ninfe” – in cui il colto viaggiatore britannico mette in correlazione l’archetipo del fiume con il mito del drago. Secondo Douglas, nel Sud Italia era diffusa l’idea che il fiume, con le sue spire, i suoi meandri, somigliasse a un drago, rettile leggendario. Dall’etimo drakon Douglas ricava l’idea che il drago è una creatura che guarda e osserva. E sostiene che l’occhio del drago è costituito proprio dall’acqua (le sorgenti come “cose che vedono”). Gli fa eco Calasso, ricordando che “L’acqua vitrea della sorgente non soltanto viene protetta dalle spire del drago, ma è il suo sguardo micidiale, che scruta ogni estraneo”. Da qui la straordinaria magia del fiume, dell’acqua che scorre, delle sorgive. In antico, tutti abitati da divinità che “osservavano” e potevano incantare, possedere chi passasse accanto a loro in particolari momenti, come nell’ora “panica”, la “controra”, al centro della giornata.
Ritorniamo sui nostri passi e scendiamo verso la terza cascata, quella posta più in basso, che in loco chiamano “Munnu” o “Mundu”, che significa, probabilmente, “mondo”, “pulito”, “denudato”.
Ridiscendiamo direttamente il greto del primo vallone e giungiamo alla testa della cascata, uno scivolo di roccia in cui l’acqua s’incunea, ribollente e irrequieta. Per avere la visione della cascata dal basso, percorriamo un sentiero impervio ed instabile, a tratti strettissimo, franoso, appeso su veri e propri burroni. Ma, alla fine, siamo nella nicchia di roccia, alberi e felci. Non solo felci comuni, ma anche la grande e rara felce bulbifera (Woodwardia radicans), una specie sopravvissuta qui sin dalla preistoria, grazie al micro-clima caldo umido della gola fluviale. Le sue grandi foglie pendono come una cascata vegetale accanto al dritto e perpendicolare salto d’acqua. Il drago ci stringe ora nelle sue spire. Ma anziché soffocati, ci sentiamo protetti, come in un utero materno. Girovaghiamo nei meandri sottostanti la cascata, in un’oscura forra circondata da rupi e alberi mostruosi. L’occhio ci scruta dalle scure, profonde pozze. Le ninfe ci lanciano richiami, tentano incantamenti. Vorremmo fermarci in eterno. E mutarci in alberi, o chissà cos’altro.
Mentre ci inerpichiamo su per il perduto “sentiero inca”, immerso nella giungla delle “Indie di quaggiù”, come definivano i Gesuiti, il Sud Italia, per far comprendere quanto fosse selvaggio, isolato e pagano, ci segniamo nella memoria quella visione primigenia.
Nella lecceta, presentita dal rantolo lontano di un tuono sui monti dell’Aspromonte, ci raggiunge la pioggia, attesa. Una pioggia sottile, dello stesso umore delle cascate. Un ticchettio leggero, appena sussurrato, sulle fronde. Come fossimo in una foresta pluviale.
Mi risuonano nella mente i versi di Neruda: “Tuona sopra i pini. / La nube densa sgranò le sue uve, / cadde l’acqua da tutto il cielo vago, / il vento sciolse la sua trasparenza, / si riempirono gli alberi d’anelli, / di collane, di lacrime fuggenti. / Goccia a goccia / la pioggia si raccoglie / ancora sulla terra.”

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