Una città divisa, un ponte, una čaršija su due sponde. Simboli di incontro e convivenza che ora si trovano a fare i conti con l’eredità della guerra. La sfida di Mostar tra turismo e tradizione
La Neretva divide la città in due parti, quella musulmana e quella croata. Ora a Mostar musulmani e croati vivono in due mondi paralleli e in assenza dei loro concittadini serbi, fuggiti durante la guerra. Prima del conflitto nessuna delle tre nazionalità costituiva la maggioranza. Ora le due identità si scontrano in silenzio e, per colpa di politici poco attenti alla situazione multi-culturale della città, si formano con programmi scolastici diversi, imparano interpretazioni contrastanti sugli stessi fatti e si convincono di parlare addirittura due lingue diverse: il croato, arricchito dalle riforme radicalmente puriste di Zagabria, e il bosgnacco, turchizzato e orientalizzato spesso con dialettalismi e arcaismi ottomani caduti in disuso. Tutto in nome della distinzione di identità. Questo avviene anche all’interno di una piccola città, che è sempre stata aperta all’Europa adriatica, all’entroterra erzegovese e al resto dei Balcani, ottomani e ortodossi.
La čaršija musulmana
Quello di Mostar è un bazar orientale come ovunque nei Balcani. I venditori stanno sulle soglie dei loro negozietti. Parlano tra di loro, si chiamano l’un l’altro, si allontanano. Su una parete sono scritti i versi di una bellissima sevdalinka, genere musicale della tradizione bosniaca. Qua e là qualche fez, ciondoli con l’occhio blu ottomano contro il malocchio, tutti souvenir ormai globalizzati che non rispecchiano l’autenticità del posto.
“I croati non vengono da questa parte del ponte, non vogliono, sono fatti loro” mi spiega una ragazza che fa la guida turistica. Neanche lei ha voglia di soffermarsi sulla questione. Chiedo se era così anche prima della guerra. Qualcun altro taglia corto: “Sì, eravamo solo musulmani, sempre”. Gli chiedo se prima della guerra lavorava nello stesso negozietto. Risponde infastidito, restando però sul vago: “Sono sempre stato qui, sono di Mostar”.
Il nuovo vecchio ponte
Percorrendo la čaršija sul lungofiume si avvicina, bianco e imponente, il ponte. Orde di turisti lo fotografano, altri si fanno fotografare con la sua candidezza alle spalle, altri si accingono ad attraversarlo nella sua ripidità tra le strisce di lastre di marmo bianche e lisce. È questo il simbolo della città e per molti versi passa anche per un’immagine da consumo giornalistico internazionale della Bosnia e della sua storia drammatica. Se ne sono accorti anche i negozianti della čaršija, che vendono ormai cartoline e copie di foto del ponte distrutto nel ’93. Foto scure in un bianco e nero che acuisce la tragicità del paesaggio che circonda il ponte, annerito, desolato, sospeso sul letto scavato del fiume, che sembra un abisso spaventoso.
Il ponte è stato ricostruito nel 2004 per iniziativa della Banca Mondiale, dell’Unesco e della Turchia. Ha rimesso in comunicazione le due sponde del fiume. Ma il ponte abbattuto è come se non fosse stato mai più ricostruito. Persino il giorno dell’inaugurazione, il vescovo croato dall’altra parte della città si era opposto all’idea di fare camminare su di esso i bambini che avessero meno di 10 anni e quindi privi di ricordi, in una sorta di riconciliazione e recupero di identità del monumento ricostruito. “Sarà pericoloso per i bambini camminare sulle lastre scivolose del nuovo ponte” era la paradossale giustificazione adotta.
L’italiano, lingua franca
Dal momento in cui si entra nella čaršija a quando si percorre il ponte, i mostarini si rivolgono agli stranieri in italiano. “Prego, prego…” si sente ovunque. Anche le mendicanti rom sanno articolare varie frasi in italiano chiedendo qualche euro. Tra i negozietti musulmani si vedono spesso stranamente delle statuette di madonnine. Sono infatti numerosi i turisti italiani che fanno una sosta a Mostar, essendo la città una meta molto pubblicizzata del turismo responsabile balcanico. Ma soprattutto molto è dovuto alla vicinanza con Medjugorje, meta di pellegrinaggio cattolico che attira molti credenti.
Oltre alla pesante eredità della guerra, alla riconciliazione della città, la sfida di Mostar è anche quella di combinare un’offerta turistica effettivamente attraente con la conservazione dell’autenticità e delle tradizioni locali.
Il futuro della čaršija
A questo vuole contribuire un intervento di turismo responsabile, attuato all’interno del programma Seenet II, che mira a far acquisire alla čaršija una dimensione di turismo responsabile, inserendola nel contesto della regione Erzegovina, tramite i concetti di museo diffuso o eco-museo.
“Acqua, luce, pietra, sono i tre elementi che contraddistinguono Mostar e saranno queste le tre linee guida su cui si baserà l’eco-museo” spiega Daria Antenucci, di Oxfam Italia, segretariato del Programma. Si intende presentare al visitatore la čaršija, il lavoro artigianale delle botteghe e la vita tradizionale nella campagna erzegovese. Questo anche grazie alla creazione di un museo interattivo, che fungerà da introduzione teorica all’esplorazione dell’intero territorio di Mostar.
Il progetto ha segnato i suoi primi passi e una volta implementato Mostar non sarà solo il ponte, l’eredità della guerra o una mezza giornata da ritagliare alla visita a Medjugorije, ma anche il centro di una regione intera tutta da scoprire.
* Per facilitare la lettura si è scelto di usare il termine in versione ‘bchs’ (čaršija) nei testi riguardanti la Bosnia Erzegovina e la Serbia; in quelli sull’Albania, l’ortografia albanese (çarshija); invece per i bazar in Kosovo e Macedonia vengono usate indifferentemente entrambe le diciture.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso