Musei: Dov’è finito l’«oro nero» d’Italia?

Si chiama “Natour”: è una delle tante iniziative che sono fiorite nel Napoletano, zona dalla natura rigogliosa, dall’orografia luminosa, dall’archeologia superba. Sono visite guidate che associano alle stranote mete turistico-culturali (Pompei, i Campi Flegrei, Capri, eccetera), approfondimenti sulla flora locale (in alcune località, opportunamente ripristinata), su storia e miti testimoniati in scenari quali Cuma, col suo antro della Sibilla, o la baia di Baia, coi suoi monumenti sommersi, o il Serapeo di Pozzuoli, con le sue alte colonne. Il Museo Archeologico di Napoli è il cuore da cui tutto questo si dirama: qui, oltre alla visita delle collezioni permanenti, si propongono escursioni chiamate “Archeologia e natura nella baia di Napoli”, in parte a piedi, «perché è diverso giungere nell’atmosfera incantata di un sito naturalistico o archeologico scoprendolo poco a poco», spiegano. E lungo questi itinerari sono collocate le didascalie: aiutano i cittadini a scoprire un retaggio a volte nascosto dalla consuetudine, e il visitatore a comprendere quel che sta osservando. Il museo riporta sul territorio l’attenzione che in passato condensava all’interno delle sue mura: sono dieci gli itinerari curati dal Laboratorio di ricerche applicate della Soprintendenza archeologica.

A Napoli così si risponde a quella che è presentata come una specie di crisi permanente della cultura italiana. Recentemente al Ministero dei Beni e le Attività Culturali (Mibac) è stato presentato il rapporto “Arte, turismo e indotto economico”, curato da PriceWaterhouseCoopers, da cui risulta il solito quadro in cui si mescolano grandi potenzialità e scarsi risultati. Per dire, il settore turistico e il comparto culturale e creativo, che genera una media del 14 per cento del prodotto interno lordo nei principali Paesi europei, in Italia il è responsabile solo del 13 per cento del Pil: poco, per il Paese che ha in assoluto il maggior numero di siti nell’elenco del patrimonio Unesco (43), qualcosa come 3400 musei e 2000 parchi archeologici. Eppure il settore “turismo culturale” qui da noi la fa da leone (33,2 per cento degli introiti del turismo: un primato a livello europeo). Se ne deduce che, se qualche decennio fa gli stranieri venivano soprattutto per il sole mediterraneo, oggi arrivano alla ricerca di altre, più alte ispirazioni.

I musei, con le loro competenze nel campo della ricerca e della relazione col pubblico, sono elementi centrali a una rinnovata strategia in cui economia e cultura vanno a braccetto. E il Metropolitan di New York, con 4,5 milioni di visitatori all’anno e un fatturato di 123 milioni di euro da biglietteria, merchandising e altri servizi, diventa una specie di esempio-miraggio, un paradigma ideale.
Come stanno le cose qui da noi? «La crisi economica si sente – spiega Antonio Natali, direttore degli Uffizi, un museo che brilla non solo per l’importanza delle opere, ma anche per rendimento economico, se si considera che con 1,6 milioni di visitatori incassa 18 milioni di euro, mentre il British con 3 volte tanti visitatori (4,8 milioni) incassa poco di più (20 milioni) – ma il calo nel numero di ospiti (preferisco chiamarli così, anziché “visitatori”), per ora contenuto attorno al 3,84 per cento, può essere considerato un successo, visto che gli arrivi da Stati Uniti e Giappone sono stati fortemente penalizzati e che in sede abbiamo avuto lavori in corso con conseguenti disagi». D’altro canto, insiste Natali, «se si ritiene veramente che la cultura sia il nostro “oro nero”, come tale andrebbe curata: con i dovuti investimenti e con le dovute attenzioni da parte di tutti. Inclusi albergatori e ristoratori che dovrebbero offrire prezzi competitivi con quel che si trova all’estero… Mentre con le Amministrazioni locali sta maturando un’importante collaborazione per l’iniziativa “Città degli Uffizi”: le opere nascoste nei nostri depositi sono esposte in eventi ad hoc nei Comuni vicini, recentemente a Figline Valdarno e quindi in altri siti, a rotazione. Così la luce degli Uffizi si riverbera nel territorio e i turisti sono invogliati a conoscere oggetti e luoghi nuovi, il che costituisce una delle principali motivazioni che li può spingere a tornare, anche se vengono da lontano».

Ma a nessuno sfugge l’impegno etico verso i cittadini, oltre che verso i turisti. Non c’è museo significativo che non abbia programmi speciali per le scuole e le famiglie: «Alle iniziative espositive permanenti o temporanee, destinate a un più largo pubblico, uniamo quelle didattiche e musicali – racconta Fatima Terzo, responsabile delle Gallerie di Palazzo Leoni Montanari a Vicenza e della Galleria di Palazzo Zevallos Stigliano a Napoli, le due sedi museali di Intesa Sanpaolo – rivolte soprattutto al pubblico del territorio di riferimento. Un punto che ritengo fondamentale per musei privati come i nostri è il dialogo con le amministrazioni comunali per “fare sistema”, per offrire al turista, con un unico biglietto a prezzo contenuto, le opportunità riservate sia dalle sedi civiche che da quelle private. A Vicenza questo è avvenuto da un paio d’anni creando una vera e propria partnership attiva tra le varie istituzioni e i risultati, in termini di numero di visitatori, non si sono fatti attendere».
D’altro canto se è vero che tramite la vendita di gadget e libri o la presenza di bar e caffetterie, qualsiasi museo (ma soprattutto quelli grandi, nei quali si possono passare giorni e giorni) può ottenere buoni incassi (Metropolitan docet), quello che veramente “rende” è la “rete”: il legame col territorio. Si tratti di un biglietto unico per diversi musei, offerte coordinate tra alberghi, ristoranti e collezioni o la semplice constatazione che chi va in una città per visitare i suoi beni culturali, spende anche per la ristorazione o il soggiorno, attivando un circuito economico che va ben al di là del museo.

È il tema del “sistema”: il museo come punta avanzata, “anima” di una società. Un argomento molto sentito nel Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano, per importanza pari all’omologo di Monaco di Baviera, ma che ha in più l’imponente collezione di macchine leonardesche (e dal genio vinciano prende il nome). Privatizzato nel 2000, è gestito con piglio imprenditoriale da Fiorenzo Galli e con circa 330 mila visitatori all’anno ha un bilancio di 11 milioni di euro, coperto per il 75 per cento dalle attività proprie. Il segreto? «Abbiamo investito nel capitale umano – dice Galli – impostato un lavoro di squadra e posto il visitatore e la comunicazione al centro dell’attenzione. Così abbiamo generato fiducia nelle istituzioni e nelle aziende che sono nostri partner, non sponsor». Infatti nelle sue sale si possono ammirare macchine di ogni genere, dalla preistoria ai nostri giorni, in molti casi donati dalle industrie. «Abbiamo molti visitatori stranieri, ma soprattutto svolgiamo molte attività con l’estero. Abbiamo iniziative in corso con Giappone, Corea, Cina. A giugno ospiteremo Ecsite, il convegno annuale dei musei scientifici europei. Perché è importante confrontarsi con quanto avviene nel mondo». Già si è aperto al territorio, ora il museo si apre al mondo.
Leonardo Servadio
Fonte: www.avvenire.it