Pietra Cappa. Verso una nuova “frontiera”, guidati dal Dio Pan.

Domenica di fine primavera. Viaggiamo verso Sud. In cerca di un impossibile bel tempo. Ovunque infuriano nuvoloni scuri, gravidi di pioggia. Ormai, le previsioni del tempo – che per oggi sentenziano pioggia su tutta la Calabria – sono dettagliate (in Internet trovi addirittura l’evoluzione giornaliera ed oraria per ciascun comune).

Pietra Cappa e la valle del T. Menica, visti dal versante NE. Foto F. Bevilacqua

Pietra Cappa e la valle del Torrente Menica, visti dal versante Nord Eest. Foto F. Bevilacqua

Seppure facciano spesso cilecca. Quante volte ci è capitato di avere certezza nel bel tempo e di essere assaliti da una tempesta! E viceversa. La verità è che per “divinare” il futuro occorre essere dei o eletti o iniziati. Non basta la metereologia. Chi praticava la mantica, l’antica arte divinatoria dei Greci (e di altri popoli antichi) doveva essere prima posseduto dal dio. Come ricorda Roberto Calasso (in “La follia che viene dalle ninfe”), per i Greci la possessione era innanzitutto una forma primaria di conoscenza. Gli stessi poemi omerici sono percorsi interamente dalla possessione. E dal riconoscimento che la vita della mente (quella disvelata dalla moderna psicoanalisi, ma che i Greci ben conoscevano) è abitata da potenze che la sovrastano e sfuggono ad ogni controllo. Oggi potremmo dire, forse più laicamente, che si annidano nell’inconscio di ciascuno di noi ed in quello collettivo. Pensiamo, ad esempio, alla famosa “ira di Achille”. Non è forse questo un caso di possessione vividamente narrato da Omero?
Dunque, per divinare, occorre essere posseduti dal dio. E solo quando si è posseduti si cade nel delirio, nella follia panica, divinatrice, appunto. Che parla per enigmi, con parole oscure, mai con chiarezza, per frasi comprensibili. Nessun metereologo potrà, perciò, predire esattamente il tempo: nella sua duplice accezione, di tempo atmosferico, da un lato, e di simbolo di una condizione interiore della nostra psiche, dal’altro. Perché non è un ninpholeptos, un posseduto dalle ninfe. Come fu invece Socrate, secondo il racconto di Platone. L’aveva detto Socrate, sulle rive dell’Ilisso, seduto sotto un alto Platano (si pensi come quest’albero, nell’etnobotanica calabrese, sia ancora considerato magico, capace di far perdere l’udito), che la mania (follia) è più bella della sophrosyne (temperanza), perché la seconda nasce presso gli uomini, mentre la prima viene dal dio.

L'asceterio sulle Rocche di S. Pietro. Foto F. Bevilacqua

L’asceterio sulle Rocche di S. Pietro. Foto F. Bevilacqua

Quanto si potrebbe raccontare dello straordinario legame che tiene insieme l’antica mitologia con la moderna psicologia! Quanta storia è passata nel mezzo senza che nessuno si sia accorto che quel legame non poteva essere reciso se non a prezzo di enormi sofferenze! Quanto difficile è oggi comprendere la vera essenza di certe realtà marginali, ambigue, tenebrose, maledette, della nostra terra, senza possedere il dono di una conoscenza più profonda ed intima che non quella delle sole scienze sociali, della politica, dell’attività giudiziaria, del giornalismo!
Non ditemi che sono pazzo, allora – anzi ditemelo pure – se sto per parlarvi di uno dei luoghi più belli, strani, luminosi eppure bui dell’Aspromonte orientale. A pochi passi da paesi noti alle sole cronache giudiziarie, i cui nomi suonano sinistri alla maggior parte della gente comune: San Luca, Ciminà, Platì, Natile di Careri. Se digitate su un qualunque motore di ricerca in Itnernet “Natile di Careri”, troverete solo articoli di ‘ndrangheta. Nessuno che parli dei luoghi, della loro aura, come direbbe Elémire Zolla (che scrisse proprio un saggio con questo titolo, “Aure, i luoghi e i riti”). E nemmeno degli uomini, delle loro vite, delle loro anime. E’ solo una topografia di cognomi resi famosi dalle inchieste giudiziarie, la carta che descrive queste realtà. Null’altro. Sono paesi caduti nell’oblio della storia, marchiati a fuoco per l’eternità.
Parcheggiamo l’auto, al mattino presto, nella piccola piazzetta di Natile Vecchio, frazione di Careri. Un grumo di case strette l’una all’altra, al limite tra i declivi erbosi della valle della Fiumara di Careri e i boschi di querce dell’Aspromonte. Nel 1951 una disastrosa alluvione travolse il paese costringendo gli abitanti all’evacuazione. Il cataclisma uccise dieci pastori di Natile mentre erano sparsi per i monti. I loro nomi sono scritti su una lastra di pietra al margine esterno della piazza, con le spalle rivolte al paesaggio ghiaioso della fiumara: Domenico Callipari, Pietro Callipari, Bruno Cavalieri, Domenico Marvelli, Antonio Merto, Francesco Pangallo, Antonio Pipicella, Paolo Pipicella, Sebastiano Pipicella Sebastiano, Domenico Pipicella.

Grande fenditura alla base del versante NE di Pietra Cappa. Foto F. Bevilacqua

Grande fenditura alla base del versante Nord Est di Pietra Cappa. Foto F. Bevilacqua

Il più anziano era del 1862: aveva 89 anni quando ancora conduceva i suoi armenti per i boschi d’Aspomonte e fu travolto da una frana. Fu costruito un nuovo villaggio più a valle. Qui restano i più ostinati. Quelli che non vogliono veder morire il loro mondo. Quelli che i giornalisti conoscono solo per i cognomi scritti nelle sentenze di mafia. Ma quei cognomi sono gli stessi di quelli dei pastori morti in montagna mentre portavano al pascolo le capre. Sono gli stessi degli uomini e delle donne per i quali lo Stato, la giustizia, i diritti sono sempre state parole vuote, senza senso. Sono gli stessi dei protagonisti dei racconti di Francesco Perri (1885/1974), uno tra i maggiori narratori calabresi, ambientati in queste terre d’Aspromonte.
Non puoi astrarti dalle pagine di Perri (e di Alvaro, o di La Cava, o di Montalto alias Barillaro, o di Strati) se vieni in un posto come questo. Non puoi non aver letto, almeno una volta nella vita, “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi. Non puoi non avere a mente i saggi antropologici di Ernesto de Martino sul Sud. Non troveresti mai il bandolo della matassa. Non riusciresti a capire. Rimarresti un intruso, un turista. Bisogna avere, invece, tanta umiltà, tanta compassione, tanta voglia di capire. “Perché qui la ‘ndrangheta è così connaturata?” è una domanda più importante di “perché qui non si riesce a sconfiggere la ‘ndrangheta?”. Se non risponderemo alla prima, non troveremo mai una risposta alla seconda. E potremo avere anche le leggi migliori, del procure più efficienti e capaci, i tribunali migliori, la giustizia più rapida e funzionante, ma non riusciremo mai a portare a soluzione un problema così complesso.
Avanziamo tra i vicoli, con gli zaini in spalla. Dagli usci e dalle finestre ci osservano incuriositi. Salutiamo cordialmente. Diciamo i nostri nomi e da dove veniamo. Perché siamo lì. Dove intendiamo andare. Cosa cerchiamo. E’ il nostro codice di comportamento ovunque. Per far capire che non nascondiamo alcun recondito doppio fine, che non vogliamo essere degli intrusi, che ci proponiamo solo come ospiti. E l’ospitalità è sacra in questi luoghi dove aleggiò lo spirito della Grecia antica, come ricorda il piemontese Cesare Pavese, che a Bianco – non lontano da qui – soggiornò per mesi come confinato politico durante il fascismo e che da quell’esperienza trasse un bel romanzo, “Il carcere”, che ci riguarda e dovrebbe interessarci almeno quanto quelli dei nostri stessi narratori.
Qui non viene mai nessuno se non, talvolta, a cercar voti. Vivere qui è come stare in una enclave.

Pietra Cappa vista da Nord. Foto F. Bevilacqua.

Pietra Cappa vista da Nord. Foto F. Bevilacqua.

Non c’è una amministrazione pubblica che risolve i problemi, ma una comunità che li gestisce alla meno peggio. Eppure, così si riesce a sopravvivere. Nonostante tutto.
Avanziamo tra i vicoli in cemento del paese e in breve siamo nelle campagne che risalgono verso i monti. La direttrice da cui arrivò, disastrosissima, l’alluvione. Procediamo in un paesaggio di pascoli e coltivi, interrotti da filari di enormi querce nodose, trapunti di piccole case contadine con le stalle e gli orti. Tutto è silenzio. Il silenzio di una storia che racconta solo a chi sa ascoltare. Il sentiero è largo, a tratti lastricato. Come molti transiti aspromontani, da qui passavano in tanti, sino alla seconda guerra mondiale e ancor più prima. Da queste terre si traeva il sostentamento essenziale per le comunità. Tutto era perfettamente utilizzato. Ogni suolo, ogni singola tipologia di legno, ogni pianta, ogni animale. Il territorio era vissuto, esplorato, abitato, sfruttato fin nei luoghi più impervi.
Sbuchiamo su una valletta arcadica, tappezzata di prati luminosi. Oltre l’orlo delle colline boscose si intravedono i monumenti di roccia che caratterizzano la zona. Qualcuno ha chiamato quest’area tra Careri e San Luca “Valle delle Grandi Pietre”. Ma è una denominazione moderna, che non restituisce il senso dei luoghi. Non siamo in una sorta di Monument Valley del Sud. Non ci sono epopee di battaglie tra bianchi e pellerossa da evocare. Qui ogni rupe, ogni corso d’acqua, ogni pianoro ha un suo nome preciso, che significa tanto, che evoca tanto. Le rupi sono iconemi, come direbbero gli antropologi del paesaggio, segni distintivi dei luoghi. Pastori e contadini si sentivano rassicurati dalla loro vista familiare. Sapevano di essere nel loro mondo. Di non essersi spersi.
Un lungo aggiramento ci porta alle Rocche di San Pietro, una sequenza di rupi di conglomerato roccioso, una sorta di impasto naturale in cui spiccano miriadi di sassi levigati dall’erosione. Alcuni sono veri e propri massi di granito grigio o rosa amalgamati al complesso litico. Molti sono caduti in terra lasciando nelle pareti grandi buchi che sembrano nicchie di dormienti.

Scorcio di Pietra Cappa da Sud. Foto F. Bevilacqua.

Scorcio di Pietra Cappa da Sud. Foto F. Bevilacqua.

Le prime volte che venivamo da queste parti, agli inizi degli anni Ottanta, sotto le Rocche di San Pietro viveva un pastore, di cui ricordo ancora il cognome, Codispoti. Era sempre affabile ed ospitale. Ci offriva pane, salame, formaggio, olive, fichi secchi. Aveva un fare umile, dimesso. Eppure quando raccontava le sue storie era quasi ieratico. Una folta barba nera gli inanellava il viso, insieme ai capelli ed al berretto. Era vestito di orbace e di fustagno. La giacca spesso gettata sulle spalle ed un’accetta dal lungo manico penzolante dall’incavo interno del gomito. Ho ancora una foto di lui che suona un doppio flauto di canna sullo sfondo dei boschi e delle pietre d’Aspromonte (l’ho messa anche sulla “Guida al Parco Nazionale dell’Aspromonte, a firma mio e di Alfonso Picone Chiodo). Aveva uno stazzo con le capre. Raccontava favole leggendarie su Pietra Cappa. Una volta tolse da un fazzoletto una moneta borbonica come fosse la reliquia di un passato mitico scomparso chissà come e che lui rimpiangeva. Il suo era un mondo di re e di regine, di cavalieri e di fate. Un mondo in cui poteva prodursi quella meta-storia, quella storia magica parallela alla storia reale di cui parlava de Martino e che costituiva la via d’uscita rituale dalle quotidiane crisi personali (malattie, sfortuna, fascinazione etc.) e collettive (catastrofi, carestie etc.) per la gente di questi posti sperduti, nello spazio e nel tempo. Oggi incontriamo un giovane pastore su un vespino scassato che ha uno stazzo poco più sopra. Gli domando se porta quel cognome, se è un parente. Mi risponde di no: il vecchio Codispoti è morto da qualche anno. L’antico stazzo è in rovina. Ora, penso, il nuovo custode dei luoghi è lui. Da quel ragazzo – e da nessun altro – dipende la memoria ed il futuro delle Rocche di San Pietro. Al Centro e al Nord Italia tanta gente torna alla terra (anche persone laureate e che hanno fatto ben altre professioni), reinventa vecchi mestieri, riapre fattorie e stazzi, applica criteri e sistemi moderni alle antiche pratiche agro-silvo-pastorali. La crisi ha cambiato anche questo. In Calabria gli esempi non sono affatto sporadici, dal Pollino all’Aspromonte. Il cammino è lungo. Ma la direzione giusta non può che essere questa.

Grotta da crollo alla base del versante Nord Est di Pietra Cappa. Foto F. Bevilacqua

Grotta da crollo alla base del versante Nord Est di Pietra Cappa. Foto F. Bevilacqua

Mentre saliamo sulla cima, notiamo che un’altra comitiva sta salendo da un diverso sentiero. La incroceremo più avanti. Per il momento godiamo della vista formidabile del vallone che separa il luogo dove siamo dalla mitica Pietra Cappa. Dove siamo noi ci sono alcuni favolosi asceteri di monaci italo-greci scavati nella nuda roccia.
Riprendiamo il cammino aggirando tutto il costone che ci porta fin sul crinale di Pietra Cappa, che separa la valle del Torrente Menica dal Vallone del Salice, il corso d’acqua che scende dal versante di San Luca. La Pietra è ora sempre visibile, come un immenso testone semisepolto. Ad alcuni richiama una sfinge, ad altri un pan di zucchero, ad altri ancora un panettone. In realtà, non è paragonabile a nulla, se non snaturandone l’identità. E’ solo la Regina d’Aspromonte, come la chiamano qui. La più grande, la più imponente, la più singolare tra le tante rupi che costellano l’intero massiccio. Bisogna leggere l’apposito racconto che le dedicò Francesco Perri, per sapere dei miti che aleggiano attorno ad essa. Girando gradualmente, le sembianze della Pietra mutano. Vi contribuiscono le nubi, che ora giungono minacciose anche qui, dall’interno dell’Aspromonte. Ma senza pioggia. Ad ulteriore dimostrazione che i metereologi non potranno mai predire il “tempo”, come saprebbero fare, invece, solo i posseduti dalle Ninfe. Infiliamo il sentiero nella boscaglia che raggiunge la base della grande pietra e ne compie il periplo completo in una mezzora di cammino. Giungiamo dal lato opposto e ci acquartieriamo sotto il versante sud-est, dove incontriamo l’altra comitiva. E’ un gruppo di Siderno, guidato da un giovane e valente speleologo e torrentista, Natale Amato. Ci sono anche dei ragazzi. E’ bello constatare che il risveglio rispetto alla riscoperta dei luoghi si sta allargando in tutta la Calabria. Discutiamo con Antonio delle possibilità di scalare la pietra per raggiungerne la cima. Pietra Cappa è altra 829 metri. La parete che si rivolge a sud-ovest si eleva perpendicolare per almeno un centinaia di metri e da lì non si passa. Sul versante opposto, a nord-ovest, invece, il dislivello è minore e ci sono molte fenditure, anfratti, grotte da crollo, diedri, camini, che, se attentamente ispezionati, possono portare in cima. Racconto a Natale di quella volta che salimmo arrampicando proprio dal punto in cui siamo ora, utilizzando in parte un camino naturale. In cima trovammo resti di laterizi, segno che perfino quassù qualcuno (forse un monaco) ha abitato. Dovemmo utilizzare una corda per scendere. E’ evidente che doveva esserci un modo più semplice per salirvi. E credo di avere individuato la via che, opportunamente attrezzata (all’epoca con scale di legno e corde, oggi con una breve via ferrata), consentirebbe di salire su agevolmente. I monaci erano esperti in questo genere di cose. Volevano isolarsi dal mondo ma del mondo avevano bisogno per sopravvivere. I loro rifugi erano lontani, ma comunque non irraggiungibili.
Rientriamo in paese, compiendo un anello parziale, che ci consente di percorrere un vecchio sentiero più stretto (riconosco quello che utilizzammo in passato). Alla piazzetta sostano nel sole meridiano alcuni uomini. Un vecchio è particolarmente loquace e discorre con noi con piacere. Tutti i figli sono fuori dalla Calabria. Vive con la pensione sociale e con le poche cose che la terra gli offre. E’ una persona semplice. Si accontenta. Non scappa. Semplicemente, ha lì la sua vita, quel che resta della sua famiglia, la sua storia, i suoi luoghi. Quello è il suo mondo. Mi ricorda Cicca, una dei protagonisti de “La teda”, di Saverio Strati, che esattamente così risponde al forestiero che, vedendola tanto bella, le chiede se non ha desiderio di fuggir via dall’inferno di Africo vecchio.
Penso a questi luoghi come ad una “Frontiera” (il mito, anche simbolico ed interiore, del “Far West” americano). La nuova Frontiera non ha bisogno di rotte transoceaniche, di attraversare praterie, di valicare grandi montagne. La nuova Frontiera è qui, a poche ore d’auto dalle nostre città maleodoranti, dai nostri paesi deturpati. In quei mondi dimenticati e abbandonati dell’Italia interna e rurale, in quei paesaggi che per quasi un secolo sono stati pervicacemente cancellati dall’immaginario collettivo dei meridionali. I nuovi pellerossa siamo noi, i comatosi, i lobotomizzati, gli zombie del Sud. I nuovi bisonti sono le capre dell’Aspromonte e del Pollino, che ancora brucano l’erba vagando per le garighe e le pietraie. “Il grande mistero” degli indiani è il vecchio dio Pan, che si nasconde nelle selve della Sila e delle Serre. Pan, il dio pastore, della campagna, dei boschi, dei pascoli. Il dio della follia, dell’inconscio e della paura. Ritrovare il senso della dimensione panica della vita, ri-capire paesi e comunità che stanno agonizzando, ri-scoprire il legame profondo tra uomini e luoghi: ecco la prima missione di chi vuole cercare questa nuova Frontiera, vicina eppure tanto lontana.

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