Ritorno alla bellezza. In fila indiana tra le valli del Tacina e del Ciricilla

“Nullus locus sine genio” (nessun luogo è senza genio), Così scrive Servio (grammatico latino vissuto tra il IV ed il V secolo d.C.) nel “Commento all’Eneide” (5, 95). Come a dire che ogni luogo ha un suo nume tutelare, ha uno spirito che lo protegge e lo incarna. Ed in effetti, Virgilio, nell’“Eneide”, invoca esplicitamente, in due passi, il genius loci.

L’alta valle del Tacina vista dal Poggio degli Elfi. Foto F. Bevilacqua

Il primo è nel Libro V (83/95), allorché Enea, sospinto dai venti sulle coste della Sicilia, nel regno di Aceste, dove è sepolto il padre Anchise, compie una cerimonia in onore del genitore. Ed ecco che emergere dalle profondità della terra un serpente (per il suo habitat sotterraneo e la caratteristica della muta della pelle, specimen di palingenesi degli spiriti e simbolo ctonio). Il secondo è nel libro VII (133/138), quando, invece, l’eroe approda finalmente alla sua meta predestinata, il Lazio. Qui, dopo aver ricordato le predizioni, prega il genio del luogo e, prime fra gli dei, la Terra e le Ninfe. In entrambe le occasioni, Virgilio riconosce il numinoso che è nei luoghi, facendo compiere ai suoi personaggi riti propiziatori verso i numi tutelari, i geni dei luoghi, appunto.
Sono queste le testimonianze scritte più famose della persistenza nel mondo antico del genius loci. Un termine, un concetto che oggi usa solo qualche architetto del paesaggio per indicare l’identità estetica di un luogo (famoso il libro di Christian Norberg-Schulz, dal titolo, appunto “Genius Loci”, edito da Electa), oppure qualche poeta, narratore, viaggiatore nostalgico e spiritualista (un altro libro dal titolo “Genius loci” è quello di Vernon Lee, pseudonimo di Violet Page, edito da Sellerio). Ma – ve l’assicuro – il genio del luogo, per quanto timido, camuffato, elusivo, c’è ancora. Soprattutto in quei posti isolati e solitari, lontani dalla “civiltà”, che sono stati risparmiati dall’invasione di una fraintesa modernità. Gli uomini, infatti, se hanno proliferato esponenzialmente nelle città e tutt’intorno ad esse, nelle pianure e sulle coste, sono diventati normalmente rari nei paesi ed in montagna (benché anche lì i loro sfracelli non siano mancati).
Una domenica di metà autunno. Mattino presto. Sulle sponde del Lago Ampollino l’erba è strinata da una rugiada gelata. L’ombra ammanta i prati fin al centro della valle.
Sulla quinta di fronte, invece, si erge il versante meridionale del Montenero (nome leggendario per chi conosca un po’ la Sila e la sua storia), già lambito dalla luce radente del sole, con i suoi colori da sogno. E’ questa, infatti, la stagione dell’andar per boschi.

La foresta mista di latifoglie e conifere sotto il M. Scorciavuoi. Foto F. Bevilacqua

E’ questo il momento più propizio per ammirare i colori dell’autunno che si spandono, come le pennellate di un artista immaginifico, sulle fronde degli alberi, sul manto di foglie incanutite dei boschi. Ci sono interi popoli per i quali, questo periodo dell’anno costituisce un evento estetico, un rito spirituale.
Ho convocato i miei amici per svolgere il nostro rito autunnale. Questa volta non solo i pochi intimi di sempre. Non solo i quattro o cinque solitari delle mie escursioni intime. C’è anche il gruppo di un’associazione benemerita in Calabria, gli Amici della Montagna (ADM) di Bisignano, che da anni propugna il ritorno ad una dimensione più autentica del vivere in montagna, organizzando escursioni, riflessioni, conversazioni. Dico benemerita soprattutto perché agisce al di fuori delle grandi associazioni ambientaliste. La fa, infatti, in uno dei tanti paesi della Calabria in “dismissione”, a rischio spopolamento. Un paese come altri, al Sud (e non solo al Sud) dove il fenomeno dell’emigrazione, quello dell’oceanizzazione (il trasferimento in massa dei residenti sulle coste) e quello dell’urbanizzazione (la scelta di lavorare e risiedere nei grossi centri in pianura) ha svuotato di senso il restare in questi che sono divenuti ospizi diffusi per anziani, semplici dormitori per qualche giovane che comunque lavora in città, ha fatto dismettere le antiche attività agro-silvo-pastorali che costituivano la base dell’economia dei paesi, ha reciso l’antico rapporto che legava uomini e luoghi.
Si parte, infreddoliti, da Villaggio Verberano, sulla sponda sud del Lago Ampollino. E’, questo, un moderno agglomerato di seconde case abitate solo per un paio di settimane d’estate, da annoiati cittadini in fuga dall’arsura delle pianure. Un villaggio costruito quando si pensava che tirare su case sulle spiagge o nei boschi rispondesse al bisogno di possedere seconde e terze dimore da parte della gente di città. Per la villeggiatura.
Non bastavano le tante case libere nei centri storici dei paesi, che pure, all’inizio del dopoguerra, avevano ospitato, d’estate, la gente di città, creando una curiosa osmosi territoriale. Il disastro è accaduto, invece, particolarmente, negli anni Settanta ed Ottanta del Novecento.

Il tratto in cui il Tacina si incanala al di sotto del M. Gariglione. Foto F. Bevilacqua

Dopo l’assalto forsennato alle coste calabre, trasformate in ininterrotte, caotiche periferie urbane, si tentò anche con le montagne. Si credette che i risparmi degli italiani potessero essere investiti, dopo la seconda casa al mare, con una terza casa in Sila o in Aspromonte o sul Pollino o sulle Serre. Per fortuna gli italiani (e i calabresi stessi) non furono così prodighi e interessati per come lo erano stati, invece, con le case al mare. Ed i villaggi turistici in montagna (particolarmente in Sila) rimasero cattedrali (piuttosto bruttine e ben poco sacre) nel deserto, anzi nelle foreste.
Attraversiamo il villaggio disabitato e risaliamo lungo la stradina a fondo naturale che penetra nel bosco di faggi e pini. Un vapore azzurrino sale dal terreno umido scaldato dal sole. L’aria, pian piano, si intiepidisce. La luce filtra tra le foglie arrossate dei faggi, frangendosi in raggi obliqui danzanti di pulviscolo. Una gelida fonte immette sulla prima delle tre radure che si alternano al bosco prima del crinale.
Queste radure sono frequenti in Sila, ma anche sulle altre montagne calabresi. Qui le chiamano “macchie” (Macchia Fraga, Macchia Sacra, Macchia dell’Orso, Macchia dell’Arpa, Macchia di Pietro etc.). Ed in effetti rappresentano delle macchie di prati nel bosco, spesso dalla forma circolare. Sono le “cesine”, gli spazi aperti, sgombrati dalla vegetazione arborea con la forza devastante del fuoco, grazie al quale contadini e pastori sottraevano agli alberi – considerati “ladri di terra” – terreni da coltivare o adibire a pascolo.
In lingua italiana, questa tecnica antichissima, in auge sin dal Neolitico, si chiama debbio. Oggi, essendo grandemente diminuito il pascolo, molte macchie stanno tornando al bosco, naturalmente o a mezzo di rimboschimenti artificiali. Scompaiono anche quelle sui crinali e sulle vette, che consentivano di ammirare il paesaggio, in una regione sprovvista di picchi rocciosi, naturalmente panoramici.

Scorcio del T. Ciricilla. Foto F. Bevilacqua

Vagheggio da anni che si possa ottenere da una ipotetica autorità per il paesaggio il ripristino delle vedute più belle della Sila.
Oltrepassiamo il crinale che il tempo è già caldo. Ci tuffiamo sul lato opposto, lungo una bella valletta che scende a perpendicolo verso la valle del Tacina, nostra prima meta. Il labile sentiero (finalmente una cosa diversa dalle solite stradine carrabili che hanno sostituito gran parte degli antichi sentieri in Sila nell’epopea della riforestazione) si fa strada nel fitto bosco di faggi che si alterna agli slarghi ed alle radure. Mentre un ruscello scroscia sulla nostra sinistra in basso. Il gruppo procede a lungo in questo dedalo di vallette e costoni. Sino a che non individuo la deviazione sulla destra che so ci condurrà, in breve, al punto più panoramico dell’escursione.
Tengo molto, nel tracciare un percorso, a quale debba essere la prospettiva più bella per contemplare la veduta clou della passeggiata. Non mi accontento mai dei percorsi “normali” o più comodi e noti per raggiungere un certo posto.
Voglio che le persone che vengono con me vedano il luogo dal punto più adatto. Non è solo un’esigenza estetica. E’ anche un bisogno spirituale. L’incontro non può avvenire in un modo qualunque. Perché, come dice il filosofo americano Ralph Waldo Emerson, la natura non ti accoglie mai in vestaglia e la bellezza irrompe dappertutto. E perché, come sperimento da tempo, l’incontro deve rivelarsi un travaso tra l’anima del luogo e quella dell’uomo. Altrimenti non sarà servito a nulla: puro divertimento, semplice atletismo all’aria aperta, ma nessuna emozione profonda, niente conoscenza vera.
Serro le fila del gruppo e conduco tutti, all’unisono, sull’altura, fuori dal bosco, che chiamai Poggio degli Elfi, in onore ai libri di John R.R. Tolkien. Quella che si squaderna dinanzi ai nostri occhi è una veduta magnifica. Una grande valle tappezzata di immense praterie vellutate, circondata di boschi solenni, contornata di tonde cime selvose, si dipana per almeno tre chilometri di lunghezza e per centinaia di metri di larghezza, con al centro le lunghe spire del Fiume Tacina.

Ancora uno scorcio dell’alta Val di Tacina con in primo piano a sinistra un pino laricio. Foto. F. Bevilacqua

Da quassù, potremmo credere di trovarci al cospetto di una prateria dell’Ovest americano. Sembra la valle di “Balla coi lupi” di Kevin Kostner, quella dove estivavano gli indiani. Con le vacche al posto dei bisonti.
Son venuto qui decine di volte. E almeno una volta l’anno vi ritorno. Anche da solo. La mia terra, i luoghi dove ho messo radici sono come il corpo di una donna molto amata. Ho bisogno di esplorarlo in lungo e in largo. Fin nei recessi più segreti e celati. E’ un sentimento di appartenenza che si avvera nello scambio della reciproca scoperta. Come nella poesia di Pablo Neruda in cui l’uomo si fa insetto, per esplorare e percorrere ogni angolo del corpo dell’amata. Solo questo viaggio liminare, al confine tra sogno e realtà, appaga il mio desiderio di essere seme nella mia terra, di metterci radici, di ingravidarla col mio amore.
Per dimostrare che non sono fissato con la bellezza dei paesaggi delle montagne calabresi, citerò una sola delle innumerevoli descrizioni di viaggiatori stranieri che ho raccolto in tutti questi anni.
Nel 1927, il meridionalista, filantropo e pedagogista piemontese Giuseppe Isnardi, scrive: “Anche il viaggiatore che per la prima volte è salito in Sila percepisce subito la novità e la singolarità tipiche del paesaggio silano. E’ un’impressione, in cui ha forse parte maggiore l’anima di quella che ve ne abbiano i sensi, di ampiezza e di libertà, di grandioso e di sconfinato derivante dalla lunghezza orizzontale delle linee del terreno, nel quale pare che quasi ogni carattere di verticalità sia scomparso. Le cime più alte della regione si innalzano sull’altipiano con la dolcezza molle di lunghe colline quasi ugualmente profilate, le valli si allungano a perdita d’occhio fra pendii lievemente accennati, mentre i fiumi ne segnano pigramente il fondo con lunghi serpeggiamenti argentini e le strade rigano in lunghi rettifili il verde dei piani erbosi scomparendo qua e là nella pineta.
Anche le tinte del paesaggio concorrono, stendendosi su vaste superfici con delicate sfumature fra le gradazioni più varie dell’azzurro, del giallo e soprattutto del verde, a dare quest’impressione di ampiezza; alla quale contribuisce pure la luce, che scivolando sulle rotondità del terreno senza incontrarvi asperità ed angolosità, sembra penetrare di sé e avvolgere ogni cosa, eliminando qualsiasi contrasto di ombre e quasi abolendole. […].

La Val di Tacina vista dalla Vaccheria alta. Foto F. Bevilacqua

La Sila vuole tranquillità di soste per essere goduta e compresa. Vi è un sottile e delizioso fascino silano che attende sicuramente chi ritorni lassù e ricerchi le bellezze della Sila in luoghi e in condizioni svariate di tempo. Pochi paesaggi come quello silano vogliono essere piuttosto “sentiti” che soltanto, per così dire, visivamente ammirati”.
Scendiamo in fila indiana, in mezzo a praterie fluttuanti nel vento, come nello sfondo di un quadro rinascimentale. E, giunti sul fondo della valle, ne risaliamo il corso con un sentimento di grato stupore nell’animo. Due vecchie case di pietra diroccate (la “vaccheria” bassa e quella alta) ci ricordano di quando questi pascoli erano custoditi, d’estate, dai pastori, che, esercitando l’antica consuetudine della transumanza, vi giungevano dalle plaghe ioniche insieme alle mandrie. In una di queste vaccherie assistetti, diversi anni fa, alla produzione artigianale dei caciocavalli. Vi sovrintendeva un anziano pastore di Amato (un paesino dell’Istmo di Marcellinara) che viveva con la “mandra” da maggio ad ottobre, dormendo a volte in una baracca di assi nella parte più bassa della valle, a volte al piano terreno della vaccheria alta.
Giunti quasi alla testa della valle, storditi dai rossi, dai gialli, dagli arancioni, dai verdi delle quinte di montagne che ci circondano, pieghiamo a destra, riguadagnando lo spartiacque. Una breve sosta per rifocillarci e poi giù, sul lato opposto, verso il fondo della valle gemella del Ciricilla. Questa volta le praterie, altrettanto estese, non ci compaiono da una prospettiva analoga a quella precedente. Caliamo direttamente sul fondo, camminando ininterrottamente in foresta. Qui prendiamo a destra, seguendo la stradina che ridiscende il corso del Ciricilla. Attraversiamo la parte più stretta della valle, con ripetuti guadi. Tra ali di ontani che orlano le sponde del fiume. Ci attardiamo a fotografare scorci di questo paesaggio inusitato nella luce meridiana. Infine eccoci di nuovo al punto di partenza, dopo un anello di sette ore di cammino.
Con gli amici dell’ADM abbiamo parlato a lungo di quanta bellezza sconosciuta ci circonda, di come sia difficile restituire agli uomini la consapevolezza dei propri luoghi, di come sia vitale tentare di risvegliare le coscienze. Ma senza mai scadere nella retorica pura di chi vorrebbe la Calabria più bella della California e di chi si adira ogni qual volta qualcuno critica la Calabria e i calabresi.
C’è un pensiero, quaggiù, al Sud, che deve pur stare nel mezzo, tra la disperazione della fuga, dell’abbandono, dello spaesamento, dell’illegalità, dell’immobilismo, da un lato, e la retorica degli splendori perduti, delle lamentazioni, dell’indignazione ostentata, delle richieste di provvidenze, dall’altro. E’ lo stare nel mezzo di chi non scappa, di chi fa il suo lavoro seriamente, di chi affronta le difficoltà di ogni giorno a viso aperto, di chi si impegna nel sociale, nella cultura, nell’ambiente, di chi ama la propria terra, di chi ha sete di conoscenza, di chi cura la memoria, di chi ha rispetto di uomini e luoghi, di chi vede la bellezza senza negare il brutto, di chi resta ed è capace di un po’ di grazia e di letizia, nonostante tutto.

L’articolo Ritorno alla bellezza. In fila indiana tra le valli del Tacina e del Ciricilla sembra essere il primo su Calabria On Web.

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.