Mogadiscio 25 marzo 1991 – Mar Mediterraneo 2 aprile 2012. Sono il punto di partenza e quello di arrivo di un viaggio durato troppo poco. A ventuno anni è troppo presto per morire, anche se nasci a Mogadiscio orfana di un padre ucciso da alcuni colpi di artiglieria e cerchi, in tutti i modi, di aiutare tua madre, una fruttivendola, a sostentare una famiglia che conta atri 5 figli. La storia di Samia Yusuf Omar, atleta somala, ha dei tempi sbagliati e se come sport hai scelto la velocità, il cronometro è uno dei tuoi avversari quotidiani, il tuo nemico negli allenamenti. Un centesimo in più o in meno ti cambia la giornata già nei test, la stessa frazione di secondo ti può cambiare la vita se sei alle Olimpiadi, ai Mondiali o in un meeting milionario. Samia aveva sconfitto il nemico di tutti gli sprinter a 17 anni, anzi aveva giocato con il cronometro, che scorreva inesorabile quanto piacevolmente. Ogni istante vissuto sulla pista olimpica di Pechino è stato sospinto dal fragoroso applauso del pubblico che, quasi arreso alla noia della prima batteria, ha trovato la sua beniamina. Il boato del pubblico arriva circa 10 secondi dopo l’arrivo della plurimedagliata Veronica Campbell che è troppo concentrata e con il pensiero al turno successivo per sorridere e magari degnare di uno sguardo l’ultima arrivata. Il 32’ e 16’’ di Samia è il peggior tempo stabilito sui 200 metri piani a Pechino, ma è il suo record personale, il suo “Oro”. La stessa Campbell giungerà al titolo Olimpico della disciplina qualche giorno dopo, “distanziando” ancor più Samia. La giamaicana vinse correndo in 21’74’’, troppo veloce per le avversarie, troppo veloce per accorgersi di Samia. Veronica Campbell non ha colpe, fa il suo mestiere ma è la metafora amara di un mondo con i tempi sbagliati, noi corriamo, voltando le spalle a chi non può tenere il nostro passo. Storie come quella di Samia ne abbiamo viste alcune, le abbiamo applaudite ma non ci hanno insegnato nulla. Samia non era un’atleta professionista eppure correva, sfidò i giganti della velocità oscurandoli per 32 secondi. Avrebbe voluto prolungare la sua “corsa” per altri 4 anni cercandosi un allenatore illuminato che la conducesse fino alle Olimpiadi di Londra. Dalla Somalia, dove era tornata in una realtà sofferente, doveva però tornare in Europa ma l’avventura di Pechino non le aveva dato di certo disponibilità economica. Allora bisognava sfidare un altro gigante, molto più terribile e spietato, il mare. Come sia finito il viaggio di Samia lo si apprende dal racconto di una cronista rimasta in contatto con lei e dalle parole del grande atleta somalo Abdi Bile, campione del mondo dei 1500 metri a Roma nell’87. Bile, celebrando il trionfo di Mo Farah (somalo naturalizzato inglese) alle Olimpiadi di Londra (doppietta 5.000 e 10.000) ricorda Samia, morta nelle acque di Lampedusa, il 2 aprile a 21 anni. Samia è solo una dei 23 mila che il Mediterraneo ha inghiottito dal 2000 a oggi ma viene ancora ricordata ancora come simbolo di coraggio perché almeno Samia ha un volto, una storia da raccontare e tramandare. Samia in quell’agosto cinese aveva anche un numero al petto, il 2895, e prima dello sparo era lì, sui blocchi di partenza con altre ragazze di tutto il mondo, a cullare i suoi sogni come le altre ragazze giovani come lei, in attesa dello sparo dello starter. Il resto della storia, della sua vita, ha tempi sbagliati. Avremmo voluto parlare di uno sparo in meno (quello che l’ha resa orfana di padre) e di uno in più, quello dello starter olimpico londinese che ci avrebbe regalato altri 30 secondi di felicità.
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