Colori d’Autunno. Macchia Fraga, Timpone Calcara e l’alta val di Neto.

Un’amica, rientrata recentemente in Italia dopo un soggiorno negli U.S.A., mi riferisce che i suoi amici americani si sono meravigliati che non avesse atteso la fine dell’autunno per partire. Ecco la ragione: l’autunno, nel New England, è caratterizzato da una vera e propria festa di colori nei boschi. E la gente attende con trepidazione che l’autunno giunga al suo acme (il periodo più freddo della stagione appena prima delle piogge e delle nevicate) proprio per recarsi in montagna ed assistere allo spettacolo delle foglie che si arrossano. Particolare oggetto d’ammirazione sono le foglie degli aceri, che effettivamente, prima di cadere, raggiungono inusitate sfumature di giallo e di cremisi.

Dal poggio di Macchia Fraga il Lago Cecita in lontananza. Foto F. Bevilacqua

Ma gli americani non sono i soli ad aver maturato questa ormai tradizionale forma di sensibilità botanica e paesaggistica. A primavera, ad esempio, in Giappone, milioni di persone visitano le zone del paese popolate dai ciliegi, solo per ammirarne le fioriture, come ricorda persino Yukio Mishima in “Neve di Primavera”.
Per noi calabresi, queste “raffinate” relazioni tra uomini e luoghi (talmente raffinate da potersi definire vere e proprie esperienze estetiche se non anche estatiche) sono impensabili. Tanto più che, come avvertì Giuseppe Berto (scrittore veneto innamorato della Calabria ed oggi sepolto a Capo Vaticano), il paesaggio difficilmente entrerà mai nelle grazie dei calabresi. Egli sosteneva – in ciò concordando con quanto aveva scritto Carlo Levi a proposito del Sud e con quanto pensava, per tutti gli italiani, anche Pier Paolo Pasolini – che per i calabresi emanciparsi dal “complesso di inferiorità” della loro civiltà contadina sarebbe stato pressoché impossibile. Ed anche il paesaggio, in quanto componente di quella civiltà, secondo Berto, sarebbe rimasto a lungo inviso ai calabresi. Tanto scriveva Berto a metà degli anni settanta. Quel che proprio in quegli anni e, più massicciamente, nei due decenni successivi, i calabresi hanno fatto al paesaggio della Calabria è sotto gli occhi di tutti.
Ho regalato alla mia amica un mazzetto di foglie d’acero dalle tinte incredibili, raccolte durante le mie ultime escursioni autunnali per i monti della Calabria. E per di più l’ho portata di persona ad osservare quanto accade, nel momento più propizio dell’autunno, sui paesaggi montuosi della regione, dove regnano sovrani i boschi di alberi caducifoglie frammisti alle conifere.

Macchia Fraga. Sullo sfondo Timpone Calcara. Foto F. Bevilacqua

Fredda e tersa giornata d’autunno in Sila. Cominciamo l’escursione a piedi molto presto, come sempre, per godere della luce migliore (quella radente delle prime ore del mattino). Nella valle di Fallistro regna la quiete più assoluta. Guadiamo con facilità il Neto di Fallistro e cominciamo a risalire nella bella pineta mista a faggi che ricopre la pendice in destra idrografica della valle. La luce filtra tra le fronde, con bei raggi dorati entro cui si scatena la danza del pulviscolo atmosferico. Ben presto, superati i diversi bivi che intersecano la stradina principale, penetriamo nel tratto più imponente della pineta, con grandi e slanciati esemplari di Pino laricio di Calabria, la specie tipica ed endemica della Sila e dell’Aspromonte (lungo il percorso ce ne sono due davvero colossali).
Prima di uscire dal bosco, giriamo a sinistra tagliando diagonalmente la pendice che sale verso la sommità di Macchia Fraga. In Sila il termine “macchia” viene usato spesso per indicare gli slarghi erbosi creatisi nei secoli per effetto del debbio (in Calabria chiamato anche “cesina”), una pratica in auge sin dal Neolitico che prevedeva la distruzione di tratti di bosco col fuoco per adibirli a pascolo o a cultura e da abbandonare quando essi perdevano la fertilità. “Fraga”, invece, è un vocabolo dialettale che forse indica una graminacea.

Versante sud di Macchia Fraga. Foto F. Bevilacqua

Man mano che usciamo allo scoperto, si apre alle nostre spalle la visione della valle del Lago Cecita a sinistra, dei gruppi montuosi di Serra Ripollata e del Monte Volpintesta al centro, delle Montagne della Porcina sulla destra. Il colle di Macchia Fraga è trapunto anche di bassi arbusti di pruni selvatici. Poco discosto si erge un maestoso faggio, basso e dai rami contorti. Raggiunta la cima (m. 1683) godiamo anche della visione verso sud-ovest, completata dal Monte Botte Donato (sono ben visibili le ferite inferte al bosco dalle piste da sci della Valle dell’Inferno) e dal Timpone Calcara. Ed è qui che esplode in tutto il suo splendore la tavolozza dei colori autunnali. Le fronde dei faggi mantengono ancora le foglie giunte alla loro massima mutazione cromatica, con sfumature che vanno dal giallo al carminio. Mentre nereggiano i pini.
Stupiti dinanzi a tanta bellezza, proseguiamo il nostro cammino rientrando nel bosco. Attraversiamo tratti di foresta, brevi posti panoramici e radure. Sino al punto in cui abbandoniamo la stradina per salire sulla cresta alla nostra destra, in cerca di un punto parzialmente sgombro di vegetazione arborea dove mi soffermo sempre e che è il punto con maggior visuale del selvoso Timpone Calcara (m. 1885). Superata la solita recinzione in filo spinato (in Sila è chiamata “sepala” o “sipala”, parola dialettale che significa siepe ma che ha finito con l’indicare ogni tipo di recinzione), saliamo a sinistra tra bassi faggi, lungo un groviglio di piste di animali.

Paricolare del bosco di latifoglie e conifere nella Valle di Fallistro. Foto F. Bevilacqua

Fino a spuntare su un belvedere già riconquistato dalla vegetazione e su cui giacciono appollaiati alcuni bassi esemplari di Abete bianco. Ci affacciamo sull’orlo del belvedere e posiamo lo sguardo, letteralmente incantati, sul mareggiare di quinte montuose che si susseguono, l’una dietro l’altra, verso nord: Spirito Santo (m. 1680), Monte Curcio (m. 1768) e via via gli altri rilievi di questa porzione della Sila Grande. Sotto di noi la pendice si tuffa verso il profondo imbuto idrografico di uno dei tanti ruscelli che scendono verso l’alta Val di Neto.
Non posso non ricordare quanto scrisse nel 1955, il critico d’arte lituano naturalizzato americano Bernard Berenson, allorché, da Monte Scuro ebbe il suo primo colpo d’occhio sull’altopiano silano: “Nel pomeriggio, i nostri amici Tancredi ci hanno condotto al sommo della strada di Montescuro, là dove si guarda sull’altipiano della Sila, con le sue foreste, i laghi di un verde pistacchio, il forte profilo dell’orlo montuoso, che nasconde il Mar Jonio. Così indicibile godimento degli occhi mi ha richiamato alla memoria l’affascinante paesaggio da sogno, che si vede nell’Ascensione della Vergine di Matteo di Giovanni da Siena, tavola proveniente dal monastero senese di Sant’Eugenio ed ora esposta alla National Gallery di Londra. Tale ricordo mi aiutava a sentire la particolare qualità della veduta che stavo mirando; e intanto pensavo  come il  ricordarla dinanzi al dipinto potrebbe rendermene il più intenso piacere.” Il diario di viaggio di Berenson è edito, con il titolo “In Calabria” da Rubbettino.

Da Timpone Calcara giardando l’alta Val di Neto e i rilievi che si susseguono verso Monte Curcio. Foto F. Bevilacqua

Il pittore citato da Berenson viene chiamato anche Matteo di Giovanni di Bartolo, nacque a Borgo Sansepolcro nel 1430 e morì a Siena nel 1495. Si tratta, quindi, di un contemporaneo del grande Piero della Francesca, per altro anche lui originario di Borgo Sansepolcro. Per capire cosa intendeva dire Berenson con quel mirabile paragone, occorre sapere che nella pittura rinascimentale, a un certo punto irrompe il paesaggio naturale sullo sfondo dei quadri che hanno in primo piano le figure umane. Si tratta di un paesaggio umanizzato anzi idealizzato, geometrico ed armonioso che è governato dall’uomo, misura di tutte le cose. E a quell’uomo, il mondo naturale risponde con le delizie che l’Universo mette a disposizione della sua creatura privilegiata, come osserva Flavio Caroli ne il “Il volto e l’anima della natura” (Mondadori). Dunque, quella visione estasiò Berenson perché gli ricordava i paesaggi immaginifici che facevano da sfondo ai quadri rinascimentali.
Riprendiamo il cammino tornando sulla stradina e scendiamo, attraverso una sontuosa faggeta, nell’alta val di Neto, che ci accoglie con le sue praterie ed il fiume mormorante al centro. E’ un paradiso terrestre! Con la luce radente del pomeriggio (uguale e contraria a quella del mattino) sembra un gigantesco giardino naturale su cui si è sparsa una polvere d’oro rosso. Ridiscendiamo la valle, che si restringe, sino a sbucare sulla strada di fondovalle di Fallistro, attraverso la quale facciamo ritorno all’auto. Sono state sei ore di puro godimento. E di gratitudine per quanto il Buon Dio ci ha consentito di ammirare. Nel silenzio e nella solitudine più assoluti.

L’articolo Colori d’Autunno. Macchia Fraga, Timpone Calcara e l’alta val di Neto. sembra essere il primo su Calabria On Web.

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.