Elogio della nostalgia nel bosco delle streghe

Pier Paolo Pasolini, nel 1973, da Scritti Corsari: “Ormai da molto tempo andavo ripetendo di provare una grande nostalgia per la povertà, mia e altrui, e che ci eravamo sbagliati nel credere che la povertà fosse un male. Affermazioni reazionarie […]. Quando il dolore di vedermi circondato da gente che non riconoscevo più – da una gioventù resa infelice, nevrotica, afasica, ottusa e presuntuosa dalle mille lire di più che il benessere gli aveva improvvisamente infilato in saccoccia – ecco che è arrivata l’austerità, o la povertà obbligatoria. […]

1- Cozzo di Valle Scura. Veduta verso La Mula. Foto F. Bevilacqua

Ma come segno premonitore del ritorno ad una povertà reale, essa non può che rallegrarmi. Dico povertà, non miseria. Sono pronto a qualsiasi sacrificio personale, naturalmente. A compensarmi basterà che sulla faccia della gente torni l’antico modo di sorridere; l’antico rispetto per gli altri che era rispetto di se stessi; la fierezza di essere ciò che la propria cultura povera insegnava a essere. Allora si potrà forse ricominciare tutto da capo. Sto farneticando, lo so. Certo, queste restrizioni economiche, che hanno l’aria di fissarsi in un tenore di vita che sarà ormai quello di tutto il nostro futuro, possono significare una cosa: che era forse una troppo lucida profezia da disperati pensare  che la storia dell’umanità fosse ormai la storia dell’industrializzazione totale e del benessere […]. Forse il culmine di questa storia aberrante – benché non osassimo sperarlo – l’avevamo già raggiunto, e ora comincia la parabola discendente. Gli uomini dovranno forse risperimentare il loro passato, dopo averlo artificialmente superato e dimenticato in una specie di febbre, di frenetica incoscienza. Certo (come leggo in Piovene) il recupero di tale passato sarà per molto tempo un aborto: una mescolanza infelice tra le nuove comodità e le antiche miserie: Ma ben venga questo mondo confuso e caotico, questo declassamento. Tutto è meglio che il tipo di vita che la società stava vertiginosamente guadagnando.”
Vi chiederete che c’entra questa considerazione di Pasolini sulla povertà e sul ritorno al passato con le mie camminate. Di preciso non lo so. Ma so che la mia è una passione povera e passatista.
Che si domanda ogni volta, cosa abbiamo irrimediabilmente perduto e dove quel che abbiamo perduto possiamo ritrovarlo. Ancor più oggi che, come all’epoca in cui scriveva Pasolini, l’occidente opulento e protervo sembra avvitarsi in una crisi senza via d’uscita. Camminare è, per me, il tentativo di restituire compassione alle nostre vite intrise di spietatezza, di riannodare legami con un mondo scomparso, di verificare se esiste ancora una realtà diversa da quest’urbanesimo imperante che ci ammorba, da questa modernità che ottunde i nostri istinti migliori.

2- Serra Paratizzi. Faggio con le sembianze di un volto mostruoso. Foto F. Bevilacqua

Una domenica di tarda estate. Lasciamo l’auto a Piano di Lanzo, tra le montagne di San Donato di Ninea, nel cuore di quelli che ormai tutti chiamiamo Monti dell’Orsomarso, propaggine sud-occidentale del Parco Nazionale del Pollino. Siamo qui per completare un percorso che, qualche domenica fa, fummo costretti ad abbandonare, perché ci disorientammo e reputai prudente tornare sui nostri passi. Siamo alla “resa dei conti”: durante la settimana ho studiato attentamente il percorso sulle carte. L’idea è quella di raggiungere La Mula (m. 1935) percorrendo tutto il crinale di Cozzo di Valle Scura (m. 1824) e di Serra Paratizzi (1795). E’ lunga, anche sulle carte. Mancavo in questi luoghi da molti anni. Ci inerpichiamo in una boscaglia fitta, fino alla cima di Cozzo di Valle Scura.
Solo un paio di punti ci consentono di affacciarci verso la grande valle dell’Abatemarco, che serpeggia verso la costa tirrenica, e verso le montagne alle nostre spalle, La Calvia e Cozzo del Pellegrino. In trent’anni di tregua dai tagli, il crinale, prima solo popolato di arbusti, ora è nuovamente sommerso dal bosco. Comincia l’estenuante saliscendi tra selle e cime.
Questo luogo è un regno delle tenebre. Il terreno è cosparso di inghiottitoi e di doline. Si cammina avvolti da una giungla inestricabile. Tenere la rotta è un problema. I faggi, di solito dritti e colonnari, qui hanno tutti sembianze mostruose: volti impietriti in espressioni di dolore; rami come zanne di mammut; radici come rami e viceversa; chiome spezzate e schiacciate. C’è una sola spiegazione a queste incredibili deformità.
Il bosco, persino qui, fu tagliato nel Novecento, molto male, senza il rispetto di alcun criterio selvicolturale. La ricrescita fu compromessa dal peso della neve, ma anche dal forte vento che spazza normalmente il crinale. Il risultato è un vero e proprio bosco delle streghe, dove ogni albero è una creatura fantastica. Non c’è un luogo simile in tutto il Parco del Pollino. Procediamo intimoriti e affascinati.
Giungiamo così al punto in cui abbiamo fatto dietro front nell’occasione precedente. Piano di Zazzera è una piccola radura circolare, dopo la quale, ci dirà un contadino del posto, tutto è “Africa” (nel linguaggio della gente, giù al paese), come per dire un’immensità dove ci si può sperdere facilmente.

3- Dalla cresta nord de La Mula, guardando verso Cozo di Valle Scura. Foto F. Bevilacqua

Consci di ciò, seguiamo una nostra logica, avendo cura di lasciare segnali per il rientro. In questo labirinto verde, senza punti di riferimento, sarebbe impossibile orientarsi a vista. Poche vacche dal mesto scampanellio: fantasmi, in queste solitudini fatte di luci e ombre traditrici. Una valletta fuori dal bosco ci orienta rispetto all’ultimo tratto della nostra salita verso la vasta e glabra cima de La Mula. Ma anche qui è un entrare ed uscire dal bosco, senza una logica precisa. Sino alla grande calotta sommitale, tutta praterie e panorami sconfinati. Mentre saliamo verso l’alto, il cielo dà segni di inquietudine. Da ovest salgono ammassi di nubi che, per ora, si disfano prima di raggiungerci. Ma c’è già una larga fetta di montagne incappucciate. Ci affrettiamo, consci che un ritorno nella nebbia potrebbe esserci fatale per ritrovare la strada. Ciò non di meno, raggiungiamo la cima, dopo quattro ore e mezza di cammino, come per attestarne un’improbabile conquista. Da lì uno sguardo verso il mare nereggiante di montagne che ci circonda, ognuna simile alle altre, ma per noi diversa, ciascuna con il suo nome evocatore di tante altre avventure.
Ho il tempo di pensare come tutto questo per la maggior parte della gente non esiste. E’ pura realtà virtuale, osservata, talvolta, nelle sue versioni più esotiche, alla televisione, nei tanti programmi alla National Geographic che imperversano ovunque. E’ una favola, un’apparenza, una creazione della fantasia, una specie di passato lontano, irraggiungibile. Che non c’è ed è meglio che non ci sia più. Un luogo del tempo e dello spazio dal quale le sicurezze urbane ci hanno definitivamente emancipato.
Ecco, io chiedo solo che per tutto questo mi (ci) sia risconosciuto un vero e proprio diritto alla nostalgia. Notalgia – da nòstos = ritorno in patria (da cui i nostoi degli eroi omerici) e àlgos = dolore, tristezza – è un termine che è stato usato per la prima volta nel Settecento dal medico svizzero Johannes Hofer a proposito del sentimento che i suoi connazionali provavano quando erano lontani dalle loro vallate: un sentimento simile ad una malattia, da intendere come sofferenza per la sottrazione di un ambiente, di un’atmosfera, di un paesaggio così particolare come è quello delle Alpi.

4- Il bosco di faggi a Cozzo di Valle Scura. Foto F. Bevilacqua

Quindi nostalgia tanto più sofferta quanto più profondo è il legame con i luoghi. Un sentimento del tutto simile a quello che emigranti vecchi e nuovi provano verso i luoghi, i paesi che sono costretti a lasciare, in cerca di salvezza o di lavoro.
Per capire questa speciale nostalgia che legava i calabresi di un tempo alla Calabria, che lega me alla Calabria, è essenziale il brano di un narratore, Leonida Repaci, che, nel primo volume della saga dei “Rupe”, spiega, a proposito del ritorno in patria di uno dei protagonisti: “La terra natale non fa a Tristano Rupe grandi feste nel rivederlo, ché non è del vero affetto la smanceria. Anzi, l’incontro tra lui, figliol prodigo, e la Calabria, ha sempre una cert’aria da imbarazzo, dovuta al fatto ch’egli non sa giustificare dinanzi a lei (il bisogno non basta!) la sua lontananza, ed essa non vuole confessargli di soffrire per il suo abbandono.”
Ma la nostalgia di cui parlo non è affatto un sentimento inerte, autoreferenziale, di puro compiacimento, immobilista. E’ invece è un sentimento etico. E in quanto sentimento implica una passione, un patire le cose. Perché, come avverte Eugenio Turri, la nostalgia opera sulle comunità e i loro paesaggi come un protettore fisiologico. La nostalgia induce cioè, gli abitanti a conservare l’integrità dei luoghi dove si sono svolte le recitazioni degli uomini. La nostalgia è una medicina, una forza endogena che impedisce la messa in vendita del territorio, la cancellazione delle memorie, la trasformazione delle rovine (parlanti) in macerie (afone). La nostalgia è l’ultima forma di resistenza alla omologazione culturale.
Ecco perché propongo, per salvare quel che resta della Calabria, un manifesto che sia una rivendicazione del diritto alla nostalgia. Propongo, anzi, l’integrazione dell’art. 9 della Costituzione con un terzo comma: dopo “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica” (I comma); dopo “Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione” (II comma), aggiungiamo un terzo comma: “Garantisce a tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di condizioni economiche, il diritto a avere nostalgia della propria terra, del proprio paese”.
Torniamo rigorosamente sui nostri passi. Questa volta non ci è consentito fare anelli e varianti. Sarà già complicato ritrovare la strada dell’andata. Ed infatti lo è. Perdiamo l’orientamento tre volte. L’ultima – e sarebbe stato fatale se non ci fossimo rimessi in carreggiata – a poca distanza dalla conclusione. Devo dar fondo a tutta la mia esperienza per risolvere.

5- Pressi della vetta de La Mula. Foto F. Bevilacqua

Alla fine è anche il caso ad aiutarci. Quando già disperavamo, recuperiamo uno dei nostri segnali. A Piano di Lanzo troviamo allegre comitive, ignare di tutto, che ci offrono frutta che placa l’arsura e con l’arsura l’ansia dell’aver scampato una notte all’addiaccio nell’”Africa”.
Annoterò l’indomani sul mio diario: “Ieri, domenica abbiamo camminato per otto ore e mezza tra le montagne a sud del Cozzo del Pellegrino, sino alla sommità de La Mula. Attraversando boschi interminabili, popolati da alberi insolitamente mostruosi. Gran parte dei rami dei faggi è cresciuta all’inverso, in direzione della terra piuttosto che in alto. Per poi contorcersi in varie direzioni, come colti da una insolubile incertezza. I tronchi hanno fattezze di volti, di uomini e animali, zanne, proboscidi, occhi, nasi, bocche. Nella terra si aprono pertugi insondabili. I rari punti panoramici mostrano distese sconfinate di foreste, le chiome “pettinate” dai venti dominanti, quinte di monti che si susseguono all’infinito, valli che paiono irraggiungibili, dirupi spaventosi. Sapevo che mi sarei trovato in un vero e proprio labirinto arboreo. Ero in soggezione, affascinato, trasognato. Ho preso le mie precauzioni ai fini dell’orientamento. Nelle prime quattro ore e mezza, sino in cima, è andata bene, nonostante la mia testarda pretesa – poi rivelatasi errata – di lasciare la labile e saggia pista tracciata dalle vacche (evidentemente più intuitive e topografe di me), per proseguire lungo quella che mi pareva la giusta linea di cresta. Abbiamo rimediato e siamo giunti sulla piatta, vasta e glabra cima de La Mula, circondati da nubi minacciose, intente ad avvolgere i luoghi. Al ritorno, invece, nonostante le precauzioni, per tre volte abbiamo deviato – non so come – dalla via giusta, ingannati da un bosco reso ancor più tenebroso ed infido dalla nebbia. Abbiamo dovuto far ricorso a tutto il nostro istinto, a tutta la nostra esperienza, a tutta la nostra logica – ed anche ad un po’ di fortuna – per cavarci dai guai. Altrimenti, il giorno dopo, i giornali ci avrebbero dati per dispersi, come accadde nel 1991 mentre tentavamo di uscire dalle Gole della Fiumara Butramo in Aspromonte. Eppure, quel disorientarmi, per poi, a fatica, ritrovare la via, è stata forse la cosa più bella, l’avventura vera della giornata. Qualcuno mi domanderà: perché mai sperdersi è bello? Provo a dare la mia risposta: Perché smarrirsi, nella vita di un uomo, talvolta è necessario, forse indispensabile. Siamo abituati, nelle nostre vite inurbate e protette, a seguire sempre direzioni precise, segnalate, che conducono in luoghi certi. Chi segue una via retta e prefissata è sicuro che raggiungerà la meta.

6- Foresta nei pressi di Piano di Zazzara. Foto F. Bevilacqua

Ma, non avendo scelte da fare, non dovendo affrontare imprevisti, non saprà mai se quella meta è la sua vera meta, il suo vero approdo. Solo scegliendo la direzione durante il cammino, dubitando, ragionando, usando l’istinto, il viaggiatore matura, diviene consapevole, conosce davvero, e alla fine è artefice del proprio viaggio o – che è lo stesso – del proprio destino.”
Ebbene, esistono depressivi chimici (medicine) che hanno salvato la vita a tanta gente. Benché qualche medico sia ancora contrario all’uso degli psicofarmaci, forse a buon titolo. E tuttavia io uso un antidepressivo naturale che non ha effetti collaterali e non provoca assuefazione. Lo prendo una volta la settimana. E’ a lento rilascio. Comincia la mattina di sabato, quando mi sveglio – come sempre molto presto – e comincio a consultare le mie carte topografiche per scegliere l’escursione da compiere il giorno successivo.
Mi viene subito il buon umore. Sento un salutare formicolio ai muscoli. Il cervello entra in uno stato di lieve eccitazione. L’assunzione dell’antidepressivo prosegue durante tutta la giornata: le telefonate dei compagni di escursione, le consultazioni, il meteo. Il sabato sera vado a messa e prego: sopraggiunge una calma ascetica. Cena leggera ma energetica, sempre identica. A letto presto. Alla domenica giù dal letto alle 4,45. Lunga colazione, anche quella sempre uguale. Di nuovo eccitazione. Trasferimento in auto mentre albeggia. Di solito alle 8-8,30 si comincia a camminare. E’ in quel momento che mi inoculo la dose massiccia di antidepressivo: sole, vento, nuvole, alberi, fiori, panorami, animali, profumi, gli sguardi complici degli amici, la relazione (quasi psicoanalitica) con loro, condivisione. Svanisce la tirannia del pensiero, si scatena l’istinto. E’ come tornare primitivi. Si allertano tutte quelle facoltà del corpo e della mente che durante la settimana sono state obliterate da una razionalità sintetica ed ottusa. Che deprime l’umore e getta in una sorta di sconforto. Per come vanno il mondo e gli uomini. Alla fine della giornata sono liquefatto. Ma l’effetto del farmaco ha rigenerato i tessuti cellulari. Il metabolismo è perfetto. L’encefalo sgombro. La visione nitida. In auto guido in trance. A casa sorrido. La notte dormo sereno. In genere l’effetto dura tutto il lunedì. E perfino il martedì se non sopravvengono ansie ed arrabbiature. Vedo il mondo come da una mia nuvola, piccola, fragile, preziosa. Sono un alieno nel mondo urbano. Osservo le facce serie, truci dei miei interlocutori con un senso di estraneità. Perché so che non troppo lontano da quei rumori, da quegli sguardi ammorbanti, c’è il paradiso in terra, che attende, silenzioso ed immoto.

L’articolo Elogio della nostalgia nel bosco delle streghe sembra essere il primo su Calabria On Web.

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.