Gole e cascate. Elogio della stanzialità errante nell’era dell’“amnesia dei luoghi” e del “coma topografico”

Nelle fenditure del Torrente Santa Croce (Sila Greca) l’idea di un Sud che non ha prezzo. Con in mente de Martino, Levi e Berto. Caino archetipo del viaggiatore giustapposto al sedentario Abele? La parola “viaggio” si può declinare in cento modi diversi: viaggio di conquista, come quello dei grandi condottieri (Alessandro Magno, Giulio Cesare); viaggio d’avventura, dove s’intrecciano curiosità umana, bisogno di trasformazione interiore, cimento con i capricci degli dei (Ulisse, Gilgamesh); viaggio-pellegrinaggio, verso luoghi sacri e di culto (Terra Santa, Cammino di Santiago); viaggio commerciale, per terra e per mare (Marco Polo, Vasco da Gama); viaggio d’esplorazione e scoperta (Cristoforo Colombo, James Cook); viaggio scientifico (Charles Darwin); viaggio di conoscenza e maturazione (il Grand Tour); viaggio di redenzione ed espiazione (la ricerca del Graal); sino al viaggio turistico nel senso più prosaico del termine, come quello che porta oggi, milioni di persone che starebbero meglio a casa propria in luoghi che sarebbero migliori senza di loro, come amava dire, con sarcasmo, Jean Mistler. Ma anche viaggio di turismo consapevole, ecologico, sostenibile e via discorrendo.
Esistono poi strane tipologie di viaggio: i viaggi spirituali dei mistici; i viaggi-trance degli sciamani; i viaggi iniziatici degli adepti delle religioni misteriche; i viaggi agli inferi (da Omero a Dante); i viaggi dentro la propria psiche (con o senza l’aiuto di strizzacervelli); i viaggi nei paradisi artificiali delle droghe; i viaggi nel mondo virtuale di Internet; i viaggi ascensionali (alpinisti); i viaggi discendenti (speleologi o subacquei); i viaggi rettilinei (trekker); perfino i viaggi nel cosmo.
E poi abbiamo le escursioni nell’ultima wilderness americana di Henry David Thoreau o John Muir, le camminate poetiche di William Wordsworth, le esplorazioni scientifico-contemplative di Alexander Von Humboldt, le fantasticherie del passeggiatore solitario di Jaen-Jacques Rousseau, il viaggio attorno alla propria camera da letto di Xavier de Maistre, l’eterea passeggiata di Robert Walser, il viaggiare “dipingendo a parole” di John Ruskin, le vie dei canti di Bruce Chatwin. E via discorrendo.
Quella del viaggio non è, insomma, una categoria definita e precisa. Ma, su una cosa molti autori sembrano concordare. Il fascino del viaggio consisterebbe nello spaesamento, nella fuga, nell’evasione dalla propria casa, dai luoghi avvolgenti che fanno da scenografia alla propria vita, dagli affetti forse un po’ ingombranti dei propri cari.
Qualche anno un fa, Michel Onfray in un suo libro, “Filosofia del viaggio”, ha proposto una distinzione schematica: l’archetipo del vero viaggiatore sarebbe il pastore nomade Caino, irrequieto, anticonformista, ribelle; l’archetipo del non viaggiatore, invece, sarebbe il contadino sedentario Abele, pacifico, conservatore, ubbidiente.
E questa distinzione è talmente radicata tra i pensatori, che un altro autore, Paul Morand, nella sua raccolta di aforismi sul “Viaggiare” può scrivere causticamente: “Fare l’elogio del proprio angolino di terra: punto di vista da cadavere.”
Ebbene, io voglio pormi proprio da questo punto di vista, quello del cadavere di Morand. E cercare di spiegare cosa si prova ad essere considerati morti, se non addirittura putrescenti. Allegramente putrescenti, per quel che mi riguarda. Perché quel che io faccio, quasi di mestiere, è esattamente questo: un quotidiano “elogio del mio angolino di terra”, una perorazione del restare, un’apologia della stanzialità. Che non è tuttavia una stanzialità immobile, paralizzante, tutt’altro. E non è nemmeno una stanzialità conformista e ubbidiente. E’, invece, una stanzialità errante, irrequieta, operante. Ma pur sempre stanzialità è, visto che potremmo tradurre il mio pensiero con una parola d’ordine di difficile condivisione – me ne rendo conto – che è “io viaggio in Calabria (e al massimo in Basilicata)”.
Domenica di inizio agosto. Siamo alla ricerca di un accesso comodo alle gole del Torrente Santa Croce, nelle immediate vicinanze di Bocchigliero, paese contadino della Sila Greca. La più vasta area che si dispiega intorno al paese mi è nota da anni per le sue bellezze naturali. Soprattutto sono legato alla favolosa valle del Torrente Laurenzana, corso d’acqua più copioso e importante nella zona, nel quale gli altri, minori, convergono, prima che lo stesso Laurenzana finisca del Trionto.
Dunque cerchiamo il Santa Croce, dove non sono mai stato, ma che so essere una stretta e bella forra perché alcuni forti amici torrentisti (quei tipi in muta, imbraghi e caschetti che d’estate ridiscendono le gole ed i canyon, superando le cascate in corda e i laghetti a nuoto) ci sono stati in folto gruppo qualche domenica fa. Avrei potuto unirmi a loro. Ma amo la solitudine e preferisco gli aspetti contemplativi a quelli tecnici. E poi mi piace esplorare, trovare i luoghi da me. O forse sarebbe meglio dire: farmi trovare dai luoghi.
Per questo cerco, oggi, un accesso comodo per il Santa Croce. La cui fenditura intravedo a nord del paese, duecento metri più in basso. Con l’afa di questi giorni, dover colmare, al rientro dalle gole, un dislivello anche di soli duecento metri, nelle ore più calde della giornata, può rivelarsi fatale per chiunque. Dalle carte corografiche dell’Istituto Geografico Militare ho visto che vi erano antichi sentieri per il fiume. Probabilmente collegavano al paese il cesello di mulini e coltivi che costellava quella valle (come qualunque altra valle delle montagne calabresi). Chiedo ad un primo contadino fermo ad una fontana con un moto-ape. Sembra cadere dalle nuvole. Pare non rendersi nemmeno conto che laggiù, sotto i nostri occhi, scorre un torrente. Poi si orienta con “la timpa”, un’evidente parete rocciosa che sovrasta la parte più stretta delle gole. E sentenzia che non ci si può andare, con la macchina. E nemmeno a piedi, quando chiariamo quali sono le nostre intenzioni. Che comunque non riesce a comprendere e ci ritiene, evidentemente, dei millantatori. O dei tipi un po’ bislacchi. Domando poi ad un boscaiolo con un camioncino carico di legna. Atteggiamento analogo. Tentiamo un approccio a vista lungo una stradina di avvicinamento al fiume, ma ci porta troppo a valle: so dai miei amici torrentisti che c’è una cascata alta 25 metri e che occorre cominciare a risalire le gole da sopra la cascata; se ci si arriva da sotto è poi impossibile aggirarla. Proprio sopra la cascata, sulla carta, vedo segnato il simbolo di un antico ponte. E’ impossibile che non vi sia un accesso. Torniamo sulla strada principale e ci fermiamo presso un agriturismo con una piccola piscina. Anche il giovane proprietario è perplesso. Ci manda a tentare da un sentiero che parte dal paese e che la Comunità Montana avrebbe sistemato. Individuiamo l’imbocco. Una laconica freccia indica il “Sentiero n. 1” ed una edicola in legno non contiene alcuna informazione. Il sentiero si spegne in mezzo ad un groviglio inestricabile di rovi (e comunque non avrebbe alleviato il dislivello da colmare, al rientro, col caldo). Torniamo all’agriturismo. Dopo svariate spiegazioni, il giovane, che premette di non essere più sceso al fiume da anni, ci dice che forse proprio da lì un sentiero taglia diagonalmente e porta al di sopra della cascata e del ponte. Lasciata l’auto, ci incamminiamo. Dopo poche decine di metri, si squaderna dinanzi a noi un magnifico paesaggio arcaico, semi abbandonato: vecchi frutteti, un uliveto, una sorgiva immersa negli equiseti. Neppure venti minuti di comodissimo sentiero e ci affacciamo sulle gole: visione pittoresca del fiume che tintinna e gorgoglia tra le pietre, del suo tortuoso alveo di roccia, dell’impervia timpa. Sotto di noi il ponte. Non il vecchio ponte, ma un grande ponte nuovo, di legno. Deve essere lì da qualche anno, ma è già in completo disuso e senza alcuna manutenzione. Solita cattiva sorte delle cose fatte in Calabria con finanziamenti male utilizzati. Caliamo sul greto. Ridiscendiamo per qualche decina di metri un uno stretto budello che immette alla testa della cascata più alta. Torniamo indietro e cominciamo la risalita.
L’alveo è intagliato nella roccia come se uno scultore titanico l’avesse scolpito con le proprie mani. Dandogli forme pittoresche: scalini, imbuti, spire, slarghi, restringimenti. Le pareti della gola sono in frana, in continua evoluzione. D’inverno, con le piogge, devono essere soggette a ripetuti crolli. Sui due versanti alligna, caotica e selvaggia, la macchia. Rinvigorita da decenni di abbandono di tutte le opere dell’uomo. Ma è l’acqua ad incantare, sopra ogni cosa: smeraldo puro, lievemente marezzato dalla corrente e dal vento. Il fondo sassoso risplende come un mosaico. Nelle pozze più profonde, il verde dell’acqua è buio, compatto. Mentre rupi pittoresche vi spandono ombre misteriose.
I primi passi nell’alveo sono agevoli. Giunti ai piedi di una cascata che fluisce longilinea da un perfetto gradino di roccia, aggiriamo lateralmente in facile arrampicata. Una seconda cascata, invece, ci costringe a inerpicarci sulla sinistra in un intrico vegetale. Con difficoltà sbuchiamo sul sentiero laterale che porta ad un antico mulino di pietra. Sulla parete, vicino alla porta, infilzati ad un ferro, come segno apotropaico, una decina di ferri d’asino arrugginiti. Poco discosti tre attrezzi di piccole proporzioni, quasi lillipuziani: una vanga, una zappa, una mazza. Chissà: stanno ancora nello stesso posto in cui l’ultimo contadino di quel podere li ha abbandonati, l’ultimo giorno della sua vita. Siamo tentati di portarceli via (sono veri e propri pezzi da museo e il ferro è chiaramente battuto a mano). Ma preferiamo lasciarli lì, come segni tangibili di una vita perduta, come testimonianze eloquenti di un passato dimenticato.
Proseguiamo. Altra cascata da aggirare. Poi una frana rovinosa. Poi un canyon e, al di sopra, un’altra cascata. Oltre questo punto non si può andare senza attrezzatura adeguata. Visto il caldo, decidiamo di immergerci in una gelida pozza sontuosamente incastonata tra le rocce, fare qualche bracciata e arrampicarci sul gradino di roccia successivo che ci conduce alla base della cascata. Rientriamo per lo stesso tragitto, compresa la nuotata.
All’agriturismo trovo dei giovani che fanno il bagno nella piscina. Al proprietario accenno alle “piscine naturali” che ha a breve distanza. In un ambiente naturale di straordinaria bellezza. Un paradiso, per raggiungere il quale molta gente pagherebbe (e alloggerebbe nelle sua struttura).
Il fatto che tutti i locali da me consultati al mattino, per avere informazioni sulle gole del Santa Croce, mi abbiano risposto immemori, perplessi, è un sintomo chiaro di quella malattia psico-sociale che io chiamo “amnesia del luoghi”. Mi verrebbe da dire che l’intera Calabria vive in uno stato, sempre più ingravescente, di “coma topografico”. Siamo come in un immenso reparto di terapia intensiva, tutti, inconsapevolmente intubati, zeppi di tranquillanti e antidolorifici, come i protagonisti dei libri di Ernesto de Martino affetti da “ebetudine stuporosa”.
E i medici sono gli economisti, gli sviluppisti, che, per continuare ad esistere hanno assoluta necessità del nostro coma. Perché a nessun altro, se non a della gente in coma, potrebbero proporre le medicine palliative che normalmente ci ammanniscono: fabbriche, cemento, asfalto, opere pubbliche. Il tutto condito dalla solita, straripante retorica.
Ma l’amnesia dei luoghi in Calabria (e al Sud in genere) viene da lontano. Come intuì Carlo Levi, il quale, in “Cristo si è fermato ad Eboli” (il racconto della suo confino politico ad Aliano, in Basilicata), scrisse: “La sconsolatezza di Orlando, che era quella di tutti i meridionali che pensano con serietà ai problemi del loro paese, derivava, come in tutti, da un complesso di inferiorità […]. Se si considera la civiltà contadina una civiltà inferiore, tutto diventa sentimento di impotenza o spirito di rivendicazione: e impotenza e rivendicazione non hanno mai creato nulla di vivo”.
Bene, più passano gli anni e più mi vado convincendo che, forse, la soluzione del problema dell’amnesia dei luoghi, del coma topografico, dell’immenso reparto di terapia intensiva in cui viviamo, dell’ebetudine stuporosa, è molto più semplice e a portata di mano di quanto non si creda. Forse dovremmo solo rovesciare l’ottica, come dice Franco Cassano, e cominciare a pensare che la Calabria, il Sud non siano un “non ancora dello sviluppo”, qualcosa da riempire con zone industriali, villaggi turistici, lungomari, piste da sci, ostelli della gioventù, strade a scorrimento veloce, rifugi, laghetti collinari, aree pic-nic, fabbriche di prodotti che qualcun altro fa già e meglio altrove, pale eoliche, distese di pannelli solari, gare di fuoristrada, quad, decespugliatori e motoseghe, sagre del porco, dei funghi e delle patate – ora perfino dell’insalata (vedi Monterosso Calabro) -, e chi più ne ha ne metta.
Forse basterebbe non far nulla. Avete capito bene: nulla, niente. Limitarci ad attendere. Ma l’attesa di cui parlo, non è quella dell’indolenza e dell’ignavia. E’ un’attesa laboriosa, fatta di preparazione e creatività, di allenamento e riadattamento. E’ l’attendere che almeno una parte dell’umanità cominci a rinsavire. Come sta già accadendo, visto il successo di quel fenomeno che qualcuno chiama “idillio rurale”, contrapposto al “mito urbano”, visto quanta gente è in cerca di aria pulita, di rapporti umani cordiali, di cibi genuini, di paesaggi gradevoli, in una parola di bellezza.
E’ davvero utopico pensare, allora, che sempre più i nostri giovani possano scegliere di vivere nei paesi o in montagna e di far rivivere paesi e montagne? O che sempre più gente si opponga alla omologazione delle culture delle loro comunità? Che sempre più uomini e donne ricomincino a fare, in chiave moderna e competitiva, i mestieri che i loro avi hanno fatto per secoli? Che sempre più persone si prodighino a riannodare il legame ormai quasi reciso tra uomini e luoghi? Insomma, che la gente del Sud impari che i luoghi hanno un valore e una dignità prima ancora che un prezzo? E che quel valore e quella dignità non si possono calcolare in termini di prodotto interno lordo, ma in base alla qualità della vita che quei luoghi offrono, in relazione proprio all’incalcolabile patrimonio di bellezza che essi posseggono?
Dunque è in questo senso che non occorre far nulla, che bisogna attendere. Dobbiamo prepararci ad accogliere questa piccola-grande onda di piena. Non dobbiamo costruire ma restaurare. Non dobbiamo incrementare ma qualificare. Non dobbiamo cementificare ma rinaturalizzare. Non dobbiamo andare in macchina ma a piedi. Non dobbiamo informarci ma acculturarci. Non dobbiamo avere gli occhi sui videogiochi ma sui libri. In una parola, non dobbiamo ignorare ma conoscere.
Lo aveva scritto, in un articolo del 1962, Giuseppe Berto: “Secoli di miseria, di arretratezza, di abbandono, avevano fatto sì che il Mezzogiorno arrivasse fino a noi aspro e integro, dotato di una bellezza che oggi ha un valore incalcolabile, non solo dal punto di vista spirituale, ma anche da quello economico. Ci sarà sempre più gente che pagherà prezzi sempre più alti per avere un po’ di bellezza davanti e intorno qualche metro quadrato di solitudine”.

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