Tra i monti dell’Orsomarso, dove si cura la malinconia
Presumo che in molti mi prenderanno per un mistico delirante. Ma di fronte a tutto questo giusto ed utile fiorire di gente, associazioni, gruppi che vanno in natura (ricordo che negli anni ’80, quando ho cominciato, qui in Calabria ci si contava appena sulle dita di una mano), resto un po’ frastornato.
Ho sempre il dubbio che non abbiamo fatto qualche errore. Mi capita di pensarlo, soprattutto, quando porto con me, per dovere associativo, comitive numerose. Oppure quando vedo certi post e certi siti, che, certamente in buona fede, inneggiano ad una sorta di “adrenalina verde”. Nulla contro l’adrenalina! E’ un ormone ed un neurotrasmettitore presente nel nostro corpo ed ha una precisa funzione, che si può sintetizzare nella locuzione “combatti o fuggi” (fight or flight). Ma con me non funziona. Quando cammino (uso questo verbo per esemplificare) in natura io non ho sversamenti adrenalinici. Non penso di star compiendo un’avventura (anche quando, in fondo, lo è). Non sento l’esigenza né di “combattere” (fight) né di “fuggire” (flight). Vorrei, invece, amare e restare. Provo una strana sensazione. Percepisco i miei piedi come le mani di una pianista (Gloria Campaner che suona il Chiaro di Luna di Debussy è l’immagine perfetta) che delicatamente sfiorano i tasti di un pianoforte dal quale esce una musica lenitiva della nostra anima. Quel pianoforte è un corpo. La terra sulla quale commino è un corpo erotico.
Domenica di inizio primavera. L’aria è luminosa, nitida. Ma l’alta pressione porta con sé il freddo. Albeggia, quando percorriamo l’autostrada poco a nord di Mormanno. La valle del Lao-Mercure, come sempre, è sommersa da uno strato di nebbia che pare un lago. Scesi a Laino Borgo, penetriamo in quella trapunta di vapore schiacciata al suolo dalla pressione atmosferica. Il paese è addormentato.
Proseguiamo per le frazioni in destra idrografica delle gole del Lao. Risaliamo nuovamente oltre la nebbia, in tempo per assistere al miracolo del sole che sorge.
Ed irradia questo piccolo, dimenticato angolo di mondo. Eppure, qui vive ancora tanta gente: in poderi, case rurali, fattorie, agriturismi. Nomi evocatori: Boccalupo, Pedali, Melogna, Carreto, Mancosa. La terra produce e dà da vivere a intere famiglie.
Non è raro vedere i contadini a lavoro. Accudire gli orti, le vigne, i frutteti, i campi. Le donne poi, sono sempre indaffarate. A dar da mangiare agli animali domestici, a cucinare, a conservare i prodotti, ad accudire alla casa, a dare una mano agli uomini. Si lavora sempre, anche la domenica. Il lavoro non è una costrizione. E’ la condizione ordinaria, quotidiana, di ciascuno. Credo che questa gente non saprebbe vivere senza far nulla. Non hanno il tempo, come noi, di chiedersi qual è il senso della vita. Perché per loro, quel senso è la vita stessa. Che si rinnova continuamente nelle stagioni, nel raccolto e nel germogliare delle piante, nel morire e nel riprodursi degli animali.
E’ a Boccalupo che prendiamo la deviazione a destra verso Monte Gada. Una stradina ripida serpeggia nella faggeta sino al pianoro occupato dall’ennesimo rifugio montano costruito con qualche sovvenzione pubblica. Mai entrato in funzione, ampiamente saccheggiato. In Calabria ce ne sono centinaia in queste condizioni. Se vi aggiungiamo (solo per restare sulle piccole opere pubbliche), gli ostelli della gioventù, i laghetti collinari, le stradine montane, le aree pic-nic, si potrebbe redigere un bestiario dell’intervento straordinario sulle nostre montagne, dello sperpero di denaro pubblico, dell’insipienza delle amministrazioni locali.

Cima di Serra Ciranteio. In basso il Piano di Ciranteio. Sullo sfondo il Golfo di Policastro. Foto F. Bevilacqua.
Lasciata l’auto cominciamo ad inerpicarci a piedi lungo la pietrosa pendice posta sulla destra del rifugio. Mi colpisce la quantità di giovani querce (cerri credo) che sta rapidamente crescendo. L’ultima volta che venni quassù, molti anni fa, la pendice era un deserto di pietre, come gran parte di queste montagne, poste ad ovest della valla del Lao.
La presenza di folte schiere di alberelli dimostra – ove ancora ce ne fosse bisogno – come la natura lasciata alla sua spontanea evoluzione sappia riappropriarsi degli spazi a lei sottratti dall’uomo nei secoli. Altro che boschi che “muoiono” se l’uomo non interviene a tagliarli, ordinarli, indirizzarli (il che significa, il più delle volte, solo saccheggiarli).
Questa vasta area, agli occhi di un osservatore attento, racconta storie di secolari spoliazioni del manto silvano, per ricavare legname ma anche per far spazio a pascoli e coltivi. E’ la storia di tutto l’Appennino. Dal Neolitico in poi. Ma qui è tutto più evidente e chiaro. Le groppe delle montagne sembrano rasate. Risalta soltanto la moltitudine infinita di bianchi massi calcarei, tra i quali cresce qualche ciuffo d’erba. Che greggi e mandrie brucano avidamente. Solo di rado gruppi di alberi formano meravigliosi boschetti. Soprattutto nelle pieghe del terreno o sui versanti più umidi. Tutti i piani e le radure recano i segni dello spietramento e dei coltivi. E perfino negli impluvi, dove l’acqua piovana si raccoglie più facilmente, l’uomo ha creato minuscole serie di terrazzamenti.
Tra i due Laino (Laino Borgo e Laino Castello), Papasidero ed Aieta, si apre il gruppo del Monte Ciagola, con Monte Gada (nostra prima meta odierna), Serra Ciranteio (seconda), Monte La Destra (terza), Timpone Sirio, Cozzo Gummario, Serra Ummara, Cozzo Petrara, Serra del Greco ed altre vette minori.
E’ uno dei comprensori agro-silvo-pastorali più arcaici della Calabria del nord, e del Parco Nazionale del Pollino, all’interno del quale questo territorio ricade. E’ un paesaggio simile a quelli di Carlo Levi e di Corrado Alvaro. Qui resistono gli ultimi pastori solitari. Che trovano ricovero in piccole casette di pietre sparse sull’orlo dei pianori, che ancora fanno il formaggio in loco, che accompagnano gli animali al pascolo brado.
Non è raro incontrarli lungo il cammino e colloquiare amabilmente con loro. Bisogna metterli subito a loro agio, spiegare esattamente perché camminiamo in quelle solitudini (loro non possono comprenderne la ragione), dimostrare ammirazione per la loro funzione di custodi dei luoghi. Molti di questi uomini, soprattutto i più anziani, amano visceralmente la loro terra. Con semplicità e malinconia. E’ il loro mondo, quello dei loro avi, entro cui sopravvive una civiltà che si è perpetuata quasi intatta, di generazione in generazione.
La loro, probabilmente, è l’ultima generazione. Alla loro morte nessuno li rimpiazzerà. I luoghi torneranno selvaggi. L’impronta dell’uomo, nel bene e nel male, vi resterà impressa senza più vita. Ammenoché qualcuno non sappia reinterpretare questi mestieri, non sappia inventarsi attività economiche che coniughino tradizione e modernità. Come in piccola parte sta già avvenendo.
Quando raggiungiamo la vetta di Monte Gada (m. 1264), ci avvediamo di come anche un rilievo di modesta altitudine possa essere, innegabilmente, “montagna”. Ossia luogo elevato, da dove il mondo pare stendersi ai piedi dell’osservatore, dove capisci di trovarti in alto, al di sopra delle pianure invase dalla stanzialità e dalla modernità.
Qui è in gioco l’idea stessa di montagna. La montagna, per essere tale, non deve necessariamente annoverare ghiacci perenni, vette acute, picchi rocciosi, grandi altezze, come tendono a farci credere le riviste di settore. La montagna va pensata nel suo contesto geografico, va considerata per ciò che essa rappresenta per la gente che ci vive intorno. Così, come scrive Fernand Braudel, la montagna del Mediterraneo è il luogo d’elezione per la conservazione del passato. Nel senso di tradizione e identità. Perché è soprattutto nelle montagne che si è dipanata la vita delle popolazioni del Mediterraneo nei millenni.
Il nostro sguardo spazia ora verso il gruppo di Monte La Spina, verso quello del Serramale, verso i rilievi lucani. Percorriamo ora il lungo crinale che prosegue verso sud, in direzione di Serra Ciranteio. Attraversiamo un’ombrosa ed umida macchia di faggi. I massi, qui, sono tappezzati di soffici zolle di muschio.
Poi di nuovo allo scoperto, nell’aridità abbacinante. Mentre ci avviciniamo alla sella che separa Monte Gada da Serra Ciranteio, sulla sinistra appare il largo Piano di Molarrieto, la conca attorno alla quale compiremo il nostro lungo anello. Dall’alto si apprezza la sua forma di perfetto cerchio racchiuso tra i monti, un tempo, probabilmente coltivato a segale, il grano delle montagne. Un sentiero vi sale da una frazione posta lungo la strada asfaltata che abbiamo percorso stamane.
Passato il valico, ci inerpichiamo su Serra Ciranteio (m. 1304), indecifrabile toponimo di origine greca. Dalla vetta, il panorama spazia soprattutto verso nord-ovest, con le gole e le montagne di Aieta e Tortora e, in lontananza, l’arco del Golfo di Policastro che riluce come una distesa di lapislazzuli.
In basso, sulla destra, il Piano di Ciranteio, dove vivono gli ultimi pastori della zona.
Proseguiamo sul lato opposto con dinanzi la mole di Monte Ciagola: un giorno, prima o poi, nella nostra smania di esplorare, lo saliremo anche da questo versante. Incrociamo la stradina che attraversa un valico che si chiama anch’esso Boccalupo e la percorriamo verso sinistra iniziando un’ampia svolta verso est. Ai pianori che scendono verso Acqua della Rena (e poi giungono al Piano di Molarrieto), traversiamo verso il costone ricoperto di faggi che sta sul versante opposto. Lo percorriamo tutto sino a sbucare sulla sella posta sotto Monte la Destra. Dove sostiamo nei pressi di una casetta di pietre diruta, munita di una piccola aia circolare. E’ la riprova delle antiche colture di graminacee che si praticavano quassù, insieme alla pastorizia.
Un branco di cavalli sfila lungo il costone di fronte a noi, il manto lucido e le criniere scarmigliate. Visione primordiale.
Attacchiamo l’ultima cima dell’anello. In breve siamo sulla vetta di Monte La Destra (m. 1290). Il suo nome deriva forse dal fatto che è un rilievo in destra idrografica del Lao, quasi a picco sulle gole. Lo sguardo spazia, questa volta, soprattutto ad est, verso la valle del Lao e verso le montagne dell’opposto versante della valle.
Scendiamo lungo il ripido costone che punta direttamente sulla inconfondibile macchia verde di Piano di Molarrieto, sino a che, incrociata la stradina che proviene da Acqua della Rena, e superato il Fosso della Mancosa, non ne raggiungiamo il fondo. Ancora rovine di vecchi abituri di pietra. Ancora segni di coltivi. Attraversiamo il piano verso nord, osservando le pendici che ci circondano da ogni lato, come le sponde di una enorme bacinella. Il cielo d’un azzurro intenso contrasta con il biancore delle pietre.
Si ode un lontano scampanellare di armenti. Questo paesaggio così solitario ed aspro mi affascina. I puristi delle foreste lo sdegnerebbero. Io invece ne resto ammaliato. Qui un grande albero solitario non è comprimario, come in un bosco. E’ protagonista assoluto del paesaggio, invece. Qui una macchia d’erba verde su una quinta di montagne brulle è lo sfondo di un dipinto rinascimentale.
Mentre ci avviciniamo alla conclusione del viaggio, mi volgo indietro a osservare il cammino percorso. Su una pendice pietrosa sfila lento un gregge, con un pastore vestito di fustagno. Sembra un’escrescenza della terra, uno strano animale eretto che si muove lentamente, osservando il gregge. Ci rivolge uno sguardo fugace. Risponde ad un nostro muto saluto. Mi pare chiuso nella sua bolla di semplicità e malinconia. Che tuttavia resiste in questo mondo arcaico, fatto di visioni e di miracoli quotidiani. Una cura. Per il corpo e per la mente.
Anch’io sono in cura. Anch’io soffro di malinconia. La malinconia è una malattia strana, struggente, talvolta deliziosa. Un malinconico non guarisce mai. Non vede il mondo, lo percepisce. Non lo accetta, lo subisce. La malinconia espande i sensi. Si diventa bersaglio involontario. Si assume su di sé un po’ del dolore del mondo. Chi non è malinconico non può capire. Semplicemente ti domanda che hai. E non capisce. Un malinconico si nutre di bellezza. Che, per quanto smagliante, è sempre effimera. E di poesia. E le poesie, si sa, son cose delicate, che evolvono fatalmente verso la retorica o il melodramma. Quando le scrivi tu, ovviamente. Non quando sono di Pedro Salinas o di Borges o di Yeats o di Patrizia Valduga o di Valerio Magrelli. O quando sono scritte da nessuno nell’aria, in una visione, in un’atmosfera. E restano inespresse. Ecco, quando mi vien voglia di scrivere una poesia non la scrivo proprio. La leggo. La vedo. Oppure me la tengo dentro. Lascio che il suo suono si espanda da solo dal mio corpo attraverso la pelle. Ed esca nel mondo. Senza parole imbarazzanti. Senza che nessun umano lo oda. Leggo poesia nei paesaggi, nella natura, nei volti, negli occhi. Questa è la cura. Bellezza e poesia. Poesia e bellezza.
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