La fiumara che ha un cuore. Aspromonte: nelle gole della “La Verde”

Venerdì sera. Rientriamo da un mare “comandato” ed oltraggiato, nel Lametino. Con mia moglie e i miei due figli. A sette chilometri da casa dico a mio figlio, che sta guidando: “Ferma la macchina. Voi andate. Io torno a casa di corsa”. Pensano: “uno dei soliti colpi di pazzia di papà”. Tentano di dissuadermi: è tardi, c’è traffico; e poi c’è la salita finale, un’erta di un chilometro, con un dislivello di 150 metri per raggiungere la mia casa in collina. Resisto, scendo e li mando via.

L'imbocco delle gole della Fiumara La Verde. Foto Francesco Bevilacqua

L’imbocco delle gole della Fiumara La Verde. Foto Francesco Bevilacqua

Corro lungo uno stradone, sudicio, maleodorante. Centinaia di macchine che sciamano in entrambe le direzioni. Penso a quanto è brutta la mia città, a quanto sono brutte tutte le città della Calabria. Guardo le facce truci, annoiate, depresse, negli abitacoli delle macchine. Nonostante tutto mi sento libero, diverso, resuscitato. Persino l’accenno di mal di testa che mi stava assalendo scema, sino a scomparire del tutto. Fossi tornato a casa in auto, avrei dovuto impasticcarmi per tutta la notte. Affronto l’erta con fatica ma deciso. Arrivo a casa. Come sempre, camminare o correre mi schiarisce i pensieri. Convoco la famiglia. Spiego il significato del mio gesto, che ho appreso compiendolo. Ogni giorno di vita è un giorno guadagnato. Non va sprecato. Anche se tutto congiura contro. Basta una tenerezza verso chi ami. Una chiacchierata con l’immigrato dinanzi al market. Uno sguardo commosso. Un gesto di solidarietà. Un sorriso. Una preghiera recitata in qualunque momento. Una prova come quella di stasera. Una sfida alla noia, alle convenzioni, alla banalità. Un darsi un compito, una meta, un traguardo. E raggiungerlo. Senza pensare: “lo farò domani” oppure “è inutile” oppure “ma chi me lo fa fare”. E’ un metodo, una tecnica, una via. Facciamo di ogni giorno una piccola avventura! E tutta la nostra vita sarà riscattata.
Agosto, mese dell’impazzimento collettivo. Tutti cercano il divertimento coatto. E’ una versione stupida e senza senso delle orge dionisiache dell’antichità. Un’irruzione del caos (affatto rituale e controllata, come era quella degli antichi) in quella temperanza che non esiste più, da decenni ormai.
E’ un caos vero. Fatto di ubriacature, gozzovigli, droghe di vario genere, stereotipi, pseudo-evasioni, vitalismo, caciara, trasgressioni. Vorrei non vedere quel che mi succede intorno. Per tutta la settimana ho anelato al deserto, alla solitudine, al silenzio. Sino alla domenica. Il mio giorno consacrato. Il giorno in cui fuggo dalla realtà artefatta della città ed entro nella realtà naturale della montagna.

Capre percorrono un'aerea cengia sulla parete che incombe sulle gole. Foto Francesco Bevilacqua

Capre percorrono un’aerea cengia sulla parete che incombe sulle gole. Foto Francesco Bevilacqua

Un grande alpinista russo, Anatolij Boukreev dice: “Le montagne non sono stadi dove placo la mia ambizione al successo. Sono le cattedrali dove pratico la mia religione.” Non è la bizzarria di un alpinista. L’idea di anelare al sacro (condizione primeva dell’uomo) nell’era della desacralizzazione (parola d’ordine della modernità) è ancora ben viva in una piccola parte dell’Umanità. Pier Paolo Pasolini lamentava: “Io sono sempre più scandalizzato dall’assenza del senso del sacro dei miei contemporanei. […] Io difendo il sacro perché è la parte dell’uomo che offre meno resistenza alla profanazione del potere, ed è la più minacciata dalle istituzioni delle Chiese.” Ma questa faccenda del sacro è ben spiegata dal grande storico delle religioni Mircea Eliade: “Per una coscienza moderna, un atto fisiologico, l’alimentazione, la sessualità etc., non è nient’altro che un processo organico, qualsiasi siano i tabù che ancora lo ostacolano (regole di buona educazione a tavola, limiti imposti al comportamento sessuale dai “buoni costumi”). Ma per i primitivi un tale atto non è mai soltanto fisiologico; esso è, o può diventare, un sacramento, una comunione col sacro”.
Ecco, io sono un primitivo. Percepisco la presenza del sacro dappertutto: nel cibo che mangio, nello sguardo delle persone care, in certi miei gesti quotidiani, nella luce del sole, nelle nubi, nei temporali, nel caldo e nel freddo. Ma c’è un giorno alla settimana, almeno uno, in cui tutto diviene un sacramento.
Questa domenica consacrata, di piena estate, siamo venuti fino a Samo (altro nome Precacore), un piccolo paese della Locride, alle falde dell’Aspromonte orientale. Le case, un tempo di pietra e legno, oggi intonacate, soprelevate, alluminizzate (come quasi dappertutto, del resto, in Calabria), si dipanano su una collina. Di fronte, su un costone abrupto, oltre il vallone Santa Caterina, i ruderi dall’abitato vecchio, distrutto dai terremoti che devastarono questo estremo lembo della Calabria. Il nome evoca l’isola di Samo, nell’Egeo, da dove leggenda vuole siano arrivati i fondatori del paese. Parla dell’epopea bizantina. O ancor prima di quella magnogreca. Samo vive circondato da luoghi incantati. E nessuno, da quelle parti, pare accorgersene. Forse perché ci sono immersi dentro. E non sono abituati a guardarli con gli occhi stupiti di chi viene da fuori.

Al mattino presto nell'oscurità delle gole. Foto Francesco Bevilacqua.

Al mattino presto nell’oscurità delle gole. Foto Francesco Bevilacqua.

Forse perché quei luoghi richiamano agli abitanti un’antica povertà. Che veniva loro dal rapporto difficile – benché ambivalente: di repulsione-attrazione come spiega bene Francesco Perri in un bel passo di “Emigranti” – con la terra, con la natura. La loro era una civiltà contadina e pastorale esattamente come quella che Corrado Alvaro descrive in “Gente in Aspromonte”. E’ un fatto che per gli antichi Greci il paesaggio non esisteva, insegna Joachim Ritter in un suo prezioso libretto, perché in quel mondo ormai obliato uomo e natura facevano parte di un’unica totalità. L’uomo, immerso in quella totalità, era esso stesso paesaggio. Perciò non poteva scorgerlo. E in fondo, per questa gente, il passaggio dall’immersione alla “prigione”, dall’essere parte di un tutto al sentirsi prigionieri di una natura avara e matrigna è stato inevitabile. Il paesaggio dell’Aspromonte di Samo è, paradossalmente, il prodotto dello sguardo da outsider degli stranieri che cominciano ad affluire da queste parti.
Il paesaggio della Calabria, infatti, l’hanno “inventato” i viaggiatori stranieri venuti sin quaggiù tra il settecento ed in novecento. Benché – beninteso – quel paesaggio sia anche frutto dell’opera modificatrice dei calabresi stessi.
Lasciamo l’auto sul greto della Fiumara La Verde, al mattino presto, quando la luce del sole tracima dal cielo d’oriente e s’irradia lentamente su queste terre dai colori inimitabili. La La Verde è una delle fiumare più grandi della Calabria. Il tratto vicino alla foce è largo più di un chilometro. Un deserto abbacinante di sassi di granito levigati, come gigantesche uova di struzzo, dalla furia dell’acqua. Che si scatena durante le piogge torrenziali dell’autunno, dell’inverno e della primavera. E poi scompare, quasi, d’estate. L’ennesimo contrasto, l’ennesima ambivalenza. Qui, sotto il paese, dove ci siamo fermati, la bianca lingua detritica si restringe e penetra lentamente in una delle più belle gole fluviali della Calabria.
Pastori in fuoristrada controllano un branco di capre che, libere, cercano erba sulle stente pendici circostanti il greto. Loro, le capre, paiono intente a programmare la loro escursione. Né più, né meno che noi.

Strane reazioni chimiche di minerali sui fianchi della fiumara. Foto Francesco Bevilacqua

Strane reazioni chimiche di minerali sui fianchi della fiumara. Foto Francesco Bevilacqua

Salgono in fila indiana su una parete quasi verticale di roccia dove anche un alpinista provetto troverebbe difficoltà E imboccano una stretta, aerea cengia a mezza costa, come fossero stambecchi. Risalendo verso l’alto e verso l’interno delle gole. Un’immagine senza tempo. Uguale da secoli.
Ci prepariamo e cominciamo la risalita del greto pietroso, mobile, bianchissimo. Chiuso da una chiostra di pareti di roccia brunita. Le capre percorrono in fila indiana, parallelamente a noi, la cengia vertiginosa che hanno scelto. Libere e ribelli. Vagheranno per giorni in montagna, senza padroni. Qualcuna pagherà il volersi sentire libera cadendo dalle rupi e sfracellandosi centinaia di metri più in basso. Le altre faranno ritorno quando l’istinto dirà loro che devono essere munte o macellate. Anche noi ci sentiamo liberi e ribelli. La gente è tutta stipata sulle spiagge. O al massimo in qualche villaggio turistico in montagna. Se ci vedessero penetrare in questo che a loro parrebbe un girone infernale, avrebbero la certezza che siamo pazzi in fuga da un manicomio.
O tutt’al più latitanti che cercano rifugio in qualche covo di montagna. Per loro, ignari, altra ragione non può esservi nel gesto che stiamo compiendo. Per loro è inconcepibile che si fatichi, si corrano pericoli, si affrontino disaggi solo per contemplare bellezza.
Penetriamo nel ventre della terra. Comincia la solitudine. Siamo solo in due. E questo aumenta il senso di comunione con quel che ci circonda. Inizia un dialogo silenzioso ma eloquente. Tra le nostre anime e l’anima di quel mondo di pietra e acqua. La chiostra di alte rupi si richiude su se stessa. Come un portale segreto. Fino a che le pareti distano non più di una decina di metri l’una dall’altra. Dalla luce all’ombra. Dal sole al buio. Qui i raggi del sole non penetreranno sino al mezzogiorno, ostacolati dalle barriere dei monti che incombono a perpendicolo. L’oscurità ci intimidisce. Ci fa capire che qui siamo tollerati. Che le gole ci accolgono come amici solo se non ci comportiamo da intrusi. Che tra noi si produrrà un travaso d’anime solo se sapremo stare con rispetto in questo mondo appartato e segreto. Vivo da millenni. Dove la natura è stata sempre più forte dell’uomo. Un ricettacolo dell’antica potenza della physis, come i Greci chiamavano la natura, appunto.

Al pomeriggio, sulla via del ritorno, con le gole rischiarate dal sole. Foto Francesco Bevilacqua

Al pomeriggio, sulla via del ritorno, con le gole rischiarate dal sole. Foto Francesco Bevilacqua

L’acqua scorre argentina. Una miriade di campanellini tintinnati. Non è un fiume impetuoso. Né un torrente inquieto. E’ un fluido magico, poco profondo, che pare la linfa della terra, uno sperma tellurico e cristallino. Guadiamo ripetutamente. Muti. Lontani tra noi. Come se anche in due fossimo troppi. La condizione d’ombra è l’ideale per le foto dell’acqua fluente. Ci attardiamo a ritrarre ogni angolo, ogni scorcio, ogni veduta. Qui dentro anche i suoni giungono da lontano, nel tempo e nello spazio, portati dal vento che si incanala nei meandri delle gole, proveniente da chissà dove.
Camminare in una gola fluviale significa guadare ripetutamente, fare attenzione alle pozze troppo profonde, saggiare il terreno per evitare pericolosi scivoloni, stare per ora bagnati e nell’umidità. La bellezza costa fatica. E notoriamente un turista non vuol faticare. Per lui basta pagare. Ecco perché io odio sentirmi turista. Lo scrittore francese Jean Mistler diceva che “il turismo è quell’attività consistente nel trasportare persone che starebbero meglio a casa propria in luoghi che sarebbero migliori senza di loro”. Secondo me aveva ragione. Ho trovato conferme ben motivate di questa idea, così icasticamente espressa da Mistler, ad esempio, in Maurice Aymard, Marc Augé, Remo Bodei, Virginio Bettini. Ma qui non voglio approfondire. Provo solo a spiegare la mia sensazione ogni qual volta mi capita di essere trattato, anche bene, da turista. Mi sento innanzitutto un rapinatore, tollerato perché, una volta tanto, paga un corrispettivo per quel che prende. Provo poi un sentimento di colpevole complicità verso la turistizzazione di paesi, zone, intere regioni. Infine so che quell’esperienza non mi lascerà nulla dentro, se non, nel migliore dei casi, una lieve sensazione di relax. Che fare, dunque? Rinunciare al turismo? Per fortuna non spetta a me dare una risposta. Anche in questo caso posso solo dire quel che provo. Non mi sento più “turista” quando vado nello stesso posto ripetutamente. Quando sono ospite in un agriturismo accudito con affetto o di un B&B gestito con passione. Quando non c’è una reception con una signorina algida e gentile che fa di tutto per farti sentire estraneo a casa sua. Quando mangio in una piccola trattoria dove chi cucina lo fa con amore, anzi con devozione. Quando non vengo servito da un cameriere ma da un amico. Quando sto nello stesso posto per giorni senza l’ossessione dei tour per vedere questo e quello. Quando una volta andato via, non penso già ad una nuova meta per la prossima vacanza, ma mi resta dentro una nostalgia struggente di quel luogo. Quando di quel luogo mi interessa la storia, la geografia, l’immaginario collettivo, le tradizioni, gli usi, i miti, le leggende.

L'incontro con i due escursionisti bergamaschi in uno dei tratti più suggestivi delle gole. Foto Francesco Bevilacqua

L’incontro con i due escursionisti bergamaschi in uno dei tratti più suggestivi delle gole. Foto Francesco Bevilacqua

Quando voglio capire davvero quel che pensa la gente. Quando la sorte del luogo e di chi ci vive mi stanno a cuore. Non mi sento turista, insomma, quando divento abitante.
E qui, nella La Verde io sono una raganella o una natrice dal collare o una trota o perfino una sanguisuga. Oppure sono il vento e l’acqua e gli oleandri lilla che esplodono un cespugli colorati dappertutto e le felci e le capelveneri e i muschi e i licheni. Oppure sono delle strane secrezioni delle rocce che, usciti al di sopra del tratto stretto delle gole, vediamo percolare da pertugi misteriosi, intensamente colorate di rosa e di giallo, concrezionate, odorose di zolfo. Pare si tratti di particolari reazioni chimiche dei minerali presenti nella terra.
Ora procediamo di nuovo sull’alveo più largo della fiumara. Sappiamo bene che qui ogni angolo di terra trasuda di storia. Stiamo per raggiungere il punto in cui gli abitanti di Africo vecchio attraversavano la fiumara su una trave di legno, provenienti dal loro miserrimo paese, sulla destra idrografica della valle, per raggiungere i terreni e i pascoli posti sull’altro versante. Umberto Zanotti Bianco, il grande meridionalista e filantropo che si occupò di questo paese dimenticato, durante e dopo il fascismo, costruendovi ambulatori e scuole, visitandolo ripetutamente, ne scrisse in “Tra la perduta gente”, raccontando delle decine di persone che, cadendo da quella trave, stramazzavano sulle rocce sottostanti. Dopo tre ore di cammino giungiamo sotto Monte Iofri, la cui mole si intravede sulla destra. E incontriamo un punto di attraversamento. Non sappiamo se sia quello descritto da Zanotti Bianco. E’ ancora attrezzato con un’aerea passerella di corde di ferro, ma malmessa ed inutilizzabile. E’ evidentemente che nessuno più vi transita. Gli antichi coltivi sono ormai abbandonati. Ed anche i pastori sono ben pochi rispetto a quelli di una volta.
Rientriamo. Godendo di ogni passo, di ogni veduta. Ci fermiamo ripetutamente nelle pozze più belle a fare il bagno. Ritroviamo le gole strette. Ma sembrano un luogo diverso. Ora la luce di metà giornata penetra dall’alto e le illumina tutte. Le torreggianti forma d’Aspromonte, come scriveva Edward Lear nel mentre risaliva un’altra fiumara, la Buonamico, incombono su di noi, come immensi manieri di pietra bruna. Lecci pencolano nel vuoto come impietriti da un incantesimo. Stillicidi d’acqua percolano dalle pareti laterali.
Siamo ormai nell’ultimo tratto delle gole, prima dell’uscita. In lontananza scorgiamo due figure che risalgono, lentamente, in religioso silenzio, lungo il greto. E’ una coppia bergamasca ospite presso l’agriturismo Il Bergamotto di Ugo Sergi a Condofuri marina, uno dei primi ad aver praticato una intelligente forma di integrazione tra agricoltura di qualità e turismo verde. Sono stupiti di tanta bellezza e rincuorati di aver incontrato qualcuno. La fiumara, oggi, è la nostra stessa via. Come dice Carlos Castaneda: “Qualsiasi via è solo una via, e non c’è nessun affronto, a se stessi e agli altri, nell’abbandonarla, se questo è ciò che il tuo cuore ti dice di fare. Esamina ogni via con accuratezza e ponderazione. Provala tutte le volte che lo ritieni necessario. Quindi poni a te stesso soltanto una domanda. Questa via ha un cuore? Se lo ha, la via è buona. Se non lo ha, non serve a niente.”

 

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