Il Castrum Novum tra storia e leggenda

Il Castel Nuovo, meglio noto come Maschio Angioino, è uno dei simboli più rappresentativi della città di Napoli ed è tra i castelli più famosi d’Italia. Con la sua possente sagoma domina la scenografica Piazza Municipio, creando una cornice di indiscutibile fascino.

La sua costruzione si deve a Carlo d’Angiò, capostipite della dinastia francese a Napoli, che non avendo trovato una dimora adeguata a Castel Capuano, decise di costruirsi una reggia fortificata sul mare. Individuò la zona conosciuta come Campus oppidi , nel cui centro sorgeva una chiesetta francescana. I lavori del Castrum Novum , così denominato per distinguerlo dai vecchi castelli Capuano e dell’Ovo, vennero affidati ad architetti francesi ed iniziarono nel 1279.

Gran parte della storia partenopea si intreccia con le vicende della fortezza.

Nel 1294 nel Maschio Angioino Pietro Morrone, eletto Papa con il nome di Celestino V, decise di rinunciare al Pontificato a pochi mesi dalla sua elezione. Dante Alighieri nel canto III dell’Inferno lo additò come colui che fece per viltade il gran rifiuto. La sua abdicazione favorì l’ascesa del nuovo Papa Benedetto Caetani, meglio conosciuto come Bonifacio VIII. La storia narra che fu lo stesso Bonifacio a convincere Celestino ad abdicare. Si racconta che Bonifacio, conoscendo il carattere impressionabile di Celestino, durante la notte introdusse da una finestra una lunga tromba nella camera del Papa e, fingendo di essere un messaggero di Dio, gli suggerì di abbandonare l’incarico. Il nuovo Papa poi trasferì immediatamente la sua sede a Roma per sottrarsi alle ingerenze della casata angioina.

Un castello al centro della politica internazionale, ma anche un castello di creatività intellettuale, soprattutto durante il regno di Roberto il Saggio che richiamò attorno a sé grandi letterati come Petrarca e Boccaccio. Quest’ultimo durante il suo soggiorno napoletano ebbe una relazione con la presunta figlia del re, Fiammetta, protagonista dell’opera giovanile Elegia di Madonna Fiammetta. E che dire di Giotto? Il grande maestro fiorentino giunse in città nel 1328 con il titolo di pittore ufficiale di corte, incaricato dal re di decorare gli ambienti più importanti del Maschio Angioino. Purtroppo nulla resta dei tre cicli di affreschi realizzati dal pittore all’interno delle sale del castello; è andata distrutta la serie degli uomini illustri dell’antichità nella Sala Maior che raffigurava Sansone, Ercole, Salomone, Paride, Ettore, Achille ed Enea, probabilmente con le loro compagne; cancellate anche le scene del Nuovo e Antico Testamento nella Cappella Palatina; perdute le immagini nell’appartamento privato del re.

Il tenore della corte cambiò, alla morte del sovrano, con le due regine che salirono sul trono di Napoli fra il XIV e XV secolo: entrambe si chiamavano Giovanna, entrambe appartenevano alla famiglia d’Angiò – la prima nipote di re Roberto, la seconda sorella di re Ladislao – ed avevano un carattere simile.

Queste due figure femminili sono passate alla storia non per il valore del loro operato, ma per le loro presunte vicende sentimentali all’interno del castello. Le leggende popolari nate attorno d esse ci hanno tramandato un’immagine distorta delle loro personalità, e molte di queste leggende sono in realtà nate da dicerie negative: la “Giovanna” che viene narrata ancora oggi nelle leggende napoletane, che sia la prima o la seconda, è una regina malvagia, spietata, lussuriosa, dedita al tradimento sia per brama di potere che di assassinio.

Giovanna I d’Angiò divenne erede del regno di Napoli ad appena 18 anni. “Prima regina del Sud”, è passata alla storia più che per la sua tenacia nel reggere e difendere il trono, per i suoi quattro matrimoni, il primo dei quali contratto all’età di sette anni. Si narra dei tanti ap amanti che avrebbe avuto e che avrebbe fatto uccidere. Ma anche lei non ebbe morte serena, poichè venne fatta strangolare per ordine di Carlo di Durazzo.

Giovanna I fu anche contessa di Provenza e in letteratura è stata protagonista di varie opere, tra cui un dramma di Lope De Vega. Di lei non esiste a Napoli nessun ricordo, nessuna tomba.

Giovanna II, invece, fu regina di Napoli dal 1414 fino alla morte avvenuta nel 1435. Figlia di Carlo d’Angiò e di Margherita di Durazzo, ascese al trono all’età di 41 anni, quando era già vedova del primo marito, il duca Guglielmo d’Austria. Fin dal principio del suo regno i suoi “favoriti” ebbero molta influenza presso di lei nella gestione degli affari di Stato. Ed è proprio su questo tema che nasce e si evolve la leggenda che ruota attorno alla figura della regina, finendo con il tramandare un’immagine distorta del personaggio storico. Gli episodi più oscuri sono relativi ai vizi che le vengono attribuiti. Si racconta che la regina ospitasse nella sua alcova amanti di ogni estrazione sociale e che per tutelare il suo buon nome non avrebbe esitato a disfarsi di loro non appena soddisfatte le sue voglie, facendoli uccidere da sicari. Tra le vittime più illustri è da annoverare Sergianni Caracciolo. Divenuto un amante scomodo, Giovanna II non esitò a disfarsi di lui facendolo pugnalare all’interno di Castel Capuano.

Si è anche narrato per secoli che la regina disponesse, all’interno di Castel Nuovo, di una botola segreta: i suoi amanti, esaurito il loro “compito”, venivano gettati in questo pozzo e divorati da animali marini. Da qui si diffuse la storia di un coccodrillo che attraversato il Mediterraneo si era portato dall’Africa fino ai sotterranei del Castello. Il temibile rettile diventò nell’immaginario collettivo l’artefice dell’orrenda fine degli amanti di Giovanna, fomentando l’ennesima leggenda napoletana.

Con la morte di Giovanna II a Napoli si consumò la caduta definitiva della dinastia angioina.

Mentre della prima regina Giovanna in città non esiste nessun ricordo, della seconda si può vedere la statua nel grande monumento che ella fece erigere al fratello Ladislao nella Chiesa di San Giovanni a Carbonara e la tomba che si trova ai piedi dell’altare maggiore della Chiesa dell’Annunziata.

Un’altra famosa leggenda nata e cresciuta con le vicende del Castello, è quella dei suoi sotterranei. Essi sono formati da due ambienti chiamati “fossa del coccodrillo” e “prigione della congiura dei Baroni”. La fossa del coccodrillo serviva da deposito per il grano, infatti veniva originariamente chiamata anche “fossa del miglio”. Successivamente venne utilizzata per rinchiudervi i prigionieri condannati a pene più dure. Ma questi condannati sparivano in modo misterioso. Si scoprì la causa di tali sparizioni: da un’apertura entrava un coccodrillo che azzannava i prigionieri alle gambe trascinandoli con sé in mare. Per uccidere il coccodrillo si usò come esca un’enorme coscia di cavallo; una volta morto, venne impagliato ed appeso alla porta d’ingresso del castello, come ricorda Benedetto Croce.

A seconda dei sovrani, la leggenda assunse connotazioni diverse. Per alcuni fu la regina Giovanna a servirsene per liberarsi degli scomodi amanti; per altri fu re Ferrante d’Aragona a tenere in vita il rettile dandogli in pasto i nemici della corte.

Anche gli Aragonesi, successori degli Angioini, fecero di Castel Nuovo la sede politica e culturale del loro governo. I nuovi conquistatori presero possesso del Regno nel 1442, quando dopo un lungo assedio di Alfonso d’Aragona un gruppo di soldati riuscì a penetrare nel castello attraverso un percorso sotterraneo che dal Pozzo di Santa Sofia li condusse fino al maniero. Salito al trono, il nuovo re fece una radicale ristrutturazione della sua residenza affidando i lavori all’architetto Guglielmo Sagrera, che diede alla costruzione l’aspetto che oggi si può ammirare.

L’antica Sala Maior fu teatro di un’altra vicenda storica, quella della congiura dei Baroni contro re Ferrante d’Aragona, figlio del re Alfonso, nel 1486. Scoperto il complotto, il re invitò tutti i congiurati a cena, per celebrare le nozze della nipote, con il pretesto di cancellare ogni rancore e riportare la pace nel Regno. I Baroni accettarono l’invito, ma appena ap entrarono nella Sala, il re fece sbarrare le porte e li fece arrestare. Molti di essi furono rinchiusi nelle prigioni e fatti morire tra atroci torture.

In queste segrete si presentano tutt’oggi quattro bare senza iscrizione, forse contenenti proprio le spoglie mortali di coloro che avevano partecipato alla congiura. Da alcuni studi risulta che i cadaveri erano vestiti secondo la moda del Quattrocento e che uno di questi, forse un prelato, era morto per soffocamento.

Non si sa dove finisce la storia e dove inizia la leggenda che avvolge il leggendario Castrum Novum, ed è questo che lo rende ancora più misterioso ed affascinante.