Ogni civiltà ha bisogno di risolvere l’istinto di morte che ha in grembo. Ce lo insegna Freud. Ce lo dice la Storia. Lo spiega Ernesto De Martino in “Furore, simbolo, valore”, libro che mi accompagna, nello zaino, durante il cammino di oggi. All’attacco, dalla Badia Florense (l’ordine creato da Gioacchino da Fiore) di Fonte Laurato, territorio di Fiumefreddo Bruzio.
La valle del Torrente Cent’acque, che si apre proprio sotto l’abbazia e risale verso questo tratto meridionale dei Monti della Catena Costiera, è immersa nell’ombra. Cerco un sentiero che non ho mai percorso. La “Compagnia degli Erranti” (nome semi serio che ho dato al mio gruppo) oggi sarà messa seriamente alla prova. Potremmo essere costretti a rinunciare. Potrebbe prevalere “l’abdicazione della persona come centro di decisione e di scelta secondo valori”: il succo velenoso dell’istinto di morte secondo De Martino.
Ho chiamato a raccolta le mie informazioni. Ho guardato le carte. E’ beneagurante il sorriso sincero di una vecchietta minuta ed arzilla a Badia, il piccolo borgo rurale che contorna i resti dell’abbazia. Traverso sotto la Cresta del Monte Barbaro. Poi su, verso le rupi che si ergono, proterve. Declivi e pianori un tempo coltivati. L’intuito mi dice che l’imbocco del sentiero è qui. Non più giù, nella valle, inizialmente martoriata da una enorme frana e da una orribile cava.
Inizio ad essere eccitato. Esce fuori il selvatico che è in me. Ora abbiamo davanti la stretta e buia gola della “Scalidda”, onomatopea che coincide col nome del sentiero. Tanto antico da non essere neppure segnato sulle carte. Il passaggio sembra chiuso, impossibile. E invece ecco la traccia, labilissima, della via. Corre sull’orlo della frana. Il fondo del canyon verticale. Spettacolare.
I punti di sosta attrezzati da Piero Greco durante la ridiscesa della forra in assetto da canyoning. Guado. Sul lato opposto, quasi invisibile, s’innnalza il sentiero, fra i ciuffi di ampelodesma.
Sul crinale. Inondati dal sole che sale ad oriente. I resti di una piccola casa in pietra, terrazzamenti, coltivi, un abbeveratoio cui giunge l’acqua da un tubo. Sopra di noi una grande rupe striata di licheni sgargianti. Sul fianco della pendice che cala verso il Cent’acque, una bizzarra rupe che forse dà il nome alla Montagna dello Sperone.
Siamo precipitati, d’improvviso, tra i segni di una perduta civiltà della pietra. Quella che per millenni ha vinto l’istinto di morte in questi luoghi. Quella che oggi ha virato nel saccheggio della cava sottostante. Piccolo esempio di quella potenza distruttiva che solo l’Homo sapiens ha raggiunto nell’intera storia del mondo. Ma siamo inebriati di visioni: da un lato le montagne, dall’altro Fiumefreddo e la costa. Il sentiero ci porta di nuovo all’interno della gola dello Scalidde, a mezza costa. Finalmente la Grotta dell’Apa, che domina un cerchio magico ben nascosto. Qui stavano i primitivi. Qui era il loro rifugio segreto. E’ un luogo di potere. Ne avverto l’energia. Attraversiamo il tempo. Vediamo il mondo con gli occhi dei preistorici.
Al di sopra, grandi prati con castagni, noci, ciliegi ed una casa diruta. Poi una stradina rassicurante corre sul crinale, da dove si osserva tutta la valle del Centacque e, poco più in là il maestoso triedro del Monte Cocuzzo, massima elevazione della Catena Costiera.
Ci colleghiamo alla strada a fondo naturale che sale da Piano di Barbara, lo strano pianoro che taglia, come un’immensa seduta affacciata sul Tirreno, la vertiginosa linea verticale del Monte Barbaro.
Ora bastano i miei ricordi a farmi orientare, Saliamo verso l’interno fino ad un grande pianoro slabbrato, circondato da altre montagne immerse in una nera nuvolaglia, che ci risparmierà per tutto il giorno. Il piano della Mano del Gigante. Una rupe pazzesca che ha almeno altre tre sorelle sparse sui margini: Pietra Grotticelle, Pietra Marilla, Pietra Cannualu. Me ne pronunciò i nomi un pastore, tanti anni fa, come se si trattasse di persone, di luoghi con l’anima. Lassù, sul limitare delle nebbie, si scorge anche il favoloso aggetto di roccia di Pietra Longa.
Vaghiamo, liberi come selvatici in questo paradiso di prati e rupi. Qui una sorta di grande basamento di tempio. Lì un branco di pecore pietrificato da un incantesimo. Più in là i muri sberciati di una favolosa città rupestre, E poi ruderi di rifugi di pastori identici a quelli del Neolitico. Vacche e cavalli al pascolo. Fontane, pantani, canali. Freddo gelido per il vento di levante. Attimi di ritorno a un lontano passato.
Si rientra per la via normale. Al valico tra Monte Barbaro e Monte Guono, si squaderna uno dei più bei panorami del mondo: il Piano di Barbara sotto di noi, la costa tirrenica e le montagne dell’interno verso nord, il borgo di Falconara Albanese, il mare aperto dinanzi. Come rapaci, sorvoliamo a lungo queste visioni. Sempre più immersi nella bellezza. Nella luce meridiana. Rileggo De Martino: “A una falsa libertà fondata sulla miseria si è creduto troppo spesso contrapporre una democrazia fondata esclusivamente sul benessere, mentre il problema centrale resta la partecipazione a un certo ordine di valori morali, un piano di controllo e di risoluzione culturale della vita istintiva. Senza questa partecipazione e al di fuori di questo piano, c’è sempre il rischio” del furore e dell’istinto di morte. Altrove De Martino avverte, profeticamente, che, verificatasi la crisi delle credenze tradizionali, ai singoli cittadini delle democrazie laiche non è ancora consentito di essere protagonisti attivi, reali dell’esperienza morale e del destino della polis. Come a dire che ancora oggi, quando crediamo, col voto o con qualunque altro strumento concessoci dal potere, di aver impresso una svolta, in realtà, abbiamo solo sottoscritto la nostra eterna, ineludibile impotenza. Ma per oggi nessuno potrà rubarci la nostra briciola preziosa di felicità e di vita vera.
L’articolo L’Abbazia di Fonte Laurato, il Vallone della Scalidda, Monte Barbaro e le grandi pietre. Un sogno di luce che dirada le ombre sembra essere il primo su Calabria On Web.